Di seguito la mia intervista al giornalista Aldo Maria Valli, molto vicino a Mons. Viganò. Le domande sono il frutto di una riflessione scaturita dalla lettura di una sua intervista allo stesso Viganò qualche giorno fa (QUI).
Monsignor Viganò è il primo vescovo a prospettare l’ipotesi di nullità dell’elezione di Bergoglio, nullità che, se comprovata, potrebbe innescare il più grande reset della storia ecclesiastica, «un reset che ci riporterebbe provvidenzialmente allo status quo ante, con un Collegio cardinalizio composto solo dai cardinali nominati fino a Benedetto XVI». Da due anni a questa parte, alcuni canonisti hanno messo in discussione la validità dell’elezione di Bergoglio, dimostrando come Benedetto XVI sia ancora il legittimo papa, in quanto non avrebbe mai rinunciato espressamente al munus come richiesto dal Codice di diritto canonico, ma avrebbe semplicemente dichiarato lo stato di sede impedita, come ben documentato anche da Andrea Cionci (QUI). Crede che monsignor Viganò si riferisca a questa ipotesi, quando scrive che «occorre far luce sull’abdicazione di Benedetto XVI»?
Alcuni fra i canonisti che hanno studiato il testo della rinuncia di Benedetto XVI sottolineano che il papa distingue tra il munus (potremmo dire l’essere papa) e il ministerium (il fare il papa). Non voglio entrare in questa distinzione, rispetto alla quale, del resto, nemmeno gli esperti concordano. Osservo che, in ogni caso, Benedetto XVI ha sempre detto di aver rinunciato al pontificato ed ha egli stesso invitato a convocare un conclave per eleggere il successore. Non vedo margini per poter parlare di vizio di volontà, senza contare che Ratzinger dopo la rinuncia ha sempre riconosciuto Bergoglio come legittimo papa regnante. Tutto ciò non toglie che si debba indagare sul ruolo avuto dalla cosiddetta Mafia di San Gallo nel mettere oggettivamente in difficoltà Benedetto XVI, fino a porre le condizioni per la rinuncia. Nel mio libro Uno sguardo nella notte. Ripensando Benedetto XVI (Chorabooks, 2018) mostro come il papato di Joseph Ratzinger sia stato sottoposto ad attacchi sistematici, in un crescendo di aggressività tesa a mettere il pontefice in un angolo e a presentarlo come indifendibile presso l’opinione pubblica mondiale. Secondo monsignor Viganò (e io sono con lui), tale azione, da parte di quella che l’arcivescovo chiama deep church, si lega in modo evidente alle manovre del deep state: tutto si tiene, in un quadro che si configura come un autentico colpo di stato globale. La prova è che gli obiettivi di coloro che hanno lavorato per indebolire Benedetto XVI ed eleggere Francesco coincidono con quelli dei promotori del Nuovo Ordine Mondiale, e lo stesso si può dire per i mezzi utilizzati. A una lettura superficiale può sembrare ardito mettere in relazione l’elezione di Francesco e, per esempio, le rivolte di piazza Maidan a Kiev. In realtà si può verificare che i fenomeni vanno nella stessa direzione, con una regia che evidentemente ha una visione complessiva della realtà. Osservo anche che le misure adottate contro il Vaticano mediante l’esclusione dello Ior dal sistema Swift poco prima della rinuncia di Benedetto XVI (provvedimento che rese impossibile tutti i pagamenti da parte del Vaticano e mise la Santa Sede, in pratica, sullo stesso piano di uno Stato terrorista prefigurandone la rovina economica) coincide con le misure prese adesso contro le banche russe: è lo stesso tipo di interferenza ricattatoria.
La domanda è: i mezzi utilizzati per spingere Benedetto XVI a farsi da parte sono stati tali da rendere invalida la sua rinuncia e, di conseguenza, anche il conclave del 2013? Su questo dovrebbero concentrarsi gli sforzi degli specialisti decisi a lavorare per fare chiarezza.
Riguardo a eventuali brogli elettorali, monsignor Viganò ha parlato di conclave nullo. Ad oggi, la Santa Sede non ha mai respinto le accuse mosse da uno dei grandi elettori di Bergoglio, il cardinale Danneels, secondo cui i cardinali della «mafia di San Gallo» – come la chiamava lui stesso – erano presenti al conclave «nello spirito di San Gallo», cioè volti a portare a compimento i loro progetti destabilizzanti, pianificati durante le loro riunioni segrete. Qualora tale accusa trovasse riscontro, potremmo ritrovarci con dei cardinali (elettori) scomunicati, che avrebbero eletto invalidamente un cardinale a sua volta scomunicato, in quanto appartenente alla medesima mafia che lo avrebbe piazzato sul trono di Pietro. È, secondo lei, uno scenario verosimile? Bergoglio può essere definito a pieno titolo un «papa inflitto»?
Nella costituzione apostolica Universi dominici gregis (emanata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996 e riguardante la vacanza della sede apostolica e l’elezione del romano pontefice) si legge che è vietato ogni accordo pre-elettorale fra i cardinali. Inoltre, le procedure da seguire nelle votazioni sono precisate in modo minuzioso. Ora, noi sappiamo da diverse fonti (mai smentite da organi della Santa Sede) che l’elezione del cardinale Bergoglio sarebbe avvenuta la sera del 13 marzo 2013 in seguito a un terzo scrutinio. In proposito, la costituzione (n. 68) prevede: «Se il numero delle schede non corrisponde al numero degli elettori, bisogna bruciarle tutte e procedere subito ad una seconda votazione; se invece corrisponde al numero degli elettori, segue lo spoglio così come appresso». E al n. 69 leggiamo: «Qualora nello spoglio dei voti gli Scrutatori trovassero due schede piegate in modo da sembrare compilate da un solo elettore, se esse portano lo stesso nome vanno conteggiate per un solo voto, se invece portano due nomi diversi, nessuno dei due voti sarà valido; tuttavia, in nessuno dei due casi viene annullata la votazione». Dunque, nel primo caso, si sarebbe dovuto procedere al terzo scrutinio. Se invece il caso verificatosi fosse stato il secondo, non si sarebbe dovuto procedere ad un terzo scrutinio. In entrambi i casi, ci sarebbe stata una violazione delle norme. Semplice vizio procedurale, dice qualcuno. Ma la Universi Dominici gregis (n. 76) precisa: «Se l’elezione fosse avvenuta altrimenti da come è prescritto nella presente Costituzione o non fossero state osservate le condizioni qui stabilite, l’elezione è per ciò stesso nulla e invalida, senza che intervenga alcuna dichiarazione in proposito e, quindi, essa non conferisce alcun diritto alla persona eletta». Dunque, o il Vaticano smentisce che ci siano state irregolarità, oppure, se non lo fa, possiamo pensare che l’elezione di Francesco sia invalida o quantomeno chiedere che si indaghi. E lo sarebbe anche se si dimostrasse che la Mafia di San Gallo ha operato per orientare i voti dei cardinali su un candidato. La Costituzione apostolica, infatti, parla chiaro: «Proibisco a chiunque, anche se insignito della dignità del Cardinalato, di contrattare, mentre il Pontefice è in vita e senza averlo consultato, circa l’elezione del suo Successore, o promettere voti, o prendere decisioni a questo riguardo in conventicole private» (n. 79). E ancora: «I Cardinali elettori si astengano, inoltre, da ogni forma di patteggiamenti, accordi, promesse od altri impegni di qualsiasi genere, che li possano costringere a dare o a negare il voto ad uno o ad alcuni. Se ciò in realtà fosse fatto, sia pure sotto giuramento, decreto che tale impegno sia nullo e invalido e che nessuno sia tenuto ad osservarlo; e fin d’ora commino la scomunica latae sententiae ai trasgressori di tale divieto. Non intendo, tuttavia, proibire che durante la Sede Vacante ci possano essere scambi di idee circa l’elezione». Questo, dunque, il secondo fronte su cui occorre indagare: ci furono veri e propri accordi?
Il fallimento del pontificato di Bergoglio è sotto gli occhi di tutti e ormai viene ammesso anche “da sinistra”. Un recente memorandum che è circolato fra i membri del Collegio cardinalizio (firmato con lo pseudonimo Demos) lo dice a chiare lettere. Ma se l’invalidità dell’elezione di Francesco fosse svelata (o per vizio procedurale o perché ci furono accordi fra i cardinali) non ci sarebbe nemmeno bisogno di esaminare il fallimento nel dettaglio.
Ne Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Giorgio Agamben ha scritto: «L’abdicazione non può non evocare in questa prospettiva qualcosa come una discessio, una separazione della Chiesa decora dalla Chiesa fusca; e tuttavia Benedetto XVI sa che questa può e deve avvenire soltanto al momento della seconda venuta di Cristo, che è precisamente ciò che la bipartizione del corpo della Chiesa, agendo come katechon, sembra destinata a ritardare». Nel libro-intervista Benedetto XVI. Una vita, Peter Seewald riferendosi al libro di Agamben, chiede a Benedetto XVI se «la vera ragione delle sue dimissioni sia stata la volontà di risvegliare la coscienza escatologica», «una prefigurazione della separazione tra “Babilonia” e “Gerusalemme” nella Chiesa». La risposta di Benedetto XVI sembra confermare la domanda. Stando alle profezie di Garabandal, Benedetto XVI sarebbe l’ultimo papa o, perlomeno, «l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora», usando le parole di Seewald in Ultime conversazioni. Anche qui la risposta di Ratzinger è stata chiara: «Tutto può essere». Monsignor Viganò, riguardo al grande reset e alla pseudopandemia, ha detto che preannunciano il regno dell’Anticristo. Se Benedetto XVI chiude un’era e ne apre un’altra, siamo forse giunti alla fine dei tempi? È forse questo il tempo in cui il katechon viene tolto di mezzo perché si manifesti l’uomo dell’anomia?
Non mi sento in grado di rispondere. Nemmeno gli studiosi, d’altra parte, hanno raggiunto conclusioni unanimi su questioni tanto complesse. Mi limito a osservare che se Benedetto XVI si è fatto da parte per lasciare spazio a un papa più energico e in grado di governare, il progetto di Ratzinger è a sua volta fallito. La gestione Bergoglio è stata disastrosa sotto tutti gli aspetti. Non solo: con Bergoglio la Chiesa è diventata una sorta di reggicoda dell’Onu e di tutti gli altri centri di pensiero e di azione impegnati nell’imporre il Nuovo Ordine Mondiale. La vicenda della “psicopandemia” è stata, sotto questo aspetto, estremamente rivelatrice. Questi sono fatti, questa è ormai storia. Parafrasando il famoso detto “ci sarà pure un giudice a Berlino”, continuo a sperare, e a pregare, perché ci sia un testimone in Vaticano. Un porporato degno di questo nome, un monsignore che abbia un sussulto di coscienza. L’arcivescovo Viganò ha fatto e sta facendo molto: occorre evitare che venga isolato e screditato. È forse l’ultimo punto di riferimento che ci è rimasto.