DA CHE PARTE STAI?

Oggi voglio presentarvi un nuovo membro della famiglia Database. Si chiama Filippo Rossi e sarà lui stesso nell’articolo che segue a raccontarvi il suo percorso professionale e umano.
Filippo è giovane, ma ha un bagaglio colmo di esperienze importanti.

Filippo Rossi è un giornalista-reporter italo svizzero. Da 7 anni ha collaborato per varie testate coprendo soprattutto conflitti e crisi in Africa, Medio Oriente e Afghanistan. Filippo ha viaggiato, ha vissuto le zone di guerra e visto con i suoi occhi il dramma e la tragedia che ogni conflitto porta con sè.

Nel 2021 ha pubblicato il suo primo libro sulla migrazione, “Il gioco impossibile” (Dadò Editore, Locarno).

Grazie al  sostegno economico dei lettori e all’incontro con Filippo, siamo riusciti a realizzare un progetto fermo da mesi.

Database Italia ora sbarca all’estero con la sua versione internazionale. Finalmente questa sera lanceremo Database International  (databaseinternational.org). Un nuovo portale il cui amministratore e responsabile editoriale sarà proprio Filippo Rossi. Una perla rara per esperienza, professionalità e sensibilità.

Databaseinternational.org

Speriamo di essere tutti all’altezza dell’impegno. Sicuramente faremo tutto il possibile e daremo noi stessi per creare una rete di giornalisti, reporter e contatti che vogliano aiutarci a costruire il mondo nuovo prossimo a venire.

Il vostro sostegno, amici e lettori, è per noi fondamentale soprattutto ora. Questa volta più delle altre. Se credete che il nostro lavoro sia importante e ne avete la possibilità per favore seguite il link sotto e sostenete le nostre iniziative con una donazione.


DA CHE PARTE STAI?

Di Filippo Rossi

Come hanno scritto in molti, in guerra non c’è spazio per una libera informazione. In effetti, è quello che stiamo vivendo da ormai anni, spesso senza accorgercene. Viviamo in un mondo che fa credere, che millanta la libertà d’espressione tanto cara all’occidente, ma che in realtà è solamente una percezione astratta e falsa di giornalisti “liberal” che a volte ci credono per davvero senza rendersi conto di fare proprio il contrario.

Io non so se prima, quando ancora non ero nato, esistesse una libertà d’espressione. Ora come ora ne dubito seriamente. Perché, come lo abbiamo visto nella cosiddetta “pandemia”, l’informazione di massa sviluppatasi negli ultimi secoli è arma troppo strategica e quindi guadagna un ruolo ancora più importante di bombe, droni o cannoni. Puntare il dito inquisitorio contro qualcosa o qualcuno, ha una potenza devastatrice. Distruggendo vite, giustifica operazioni di conquista, cambia interi sistemi politici: presidenti, imprenditori, personaggi di spicco, interi stati… Solo pochi riescono a resistere alla carica, forse proprio combattendo le ingiurie con una contro informazione.

Se il Covid ci ha messo davanti all’evidenza che il mondo – negli ultimi decenni – non è stato in guerra solamente a livello militare ma anche a livello informativo, quello che accade oggi in Ucraina o che è successo pochi mesi fa in Afghanistan (per non citare altri esempi), non è altro che la prova definitiva che viviamo bombardati da notizie manipolate e false che vogliono veicolare un’informazione precisa e studiata, volta a danneggiare chi prova a criticare o mettere in dubbio i veri propositi di determinate azioni. Non è altro che informazione di guerra.

E il mainstream occidentale ci ha abituato a vedere in Russia, Cina, Venezuela e Iran acerrimi nemici proprio a questo scopo, volendo accecare una gran parte della popolazione per agire indisturbati dietro le quinte. L’occidente, difensore dei diritti umani e della libertà rivoluzionaria, del concetto di “liberté egalité fraternité”, oggi censura, mette in prigione giornalisti accusati di spionaggio, pretende che l’informazione sia data in maniera ben precisa e oscura, impedendo ai canali internazionali che cercano di contrapporre alla visione unilaterale dei politici di Bruxelles, Washington, Roma, Parigi o Londra una propria narrativa alternativa. È forse questa libertà d’espressione? No. E ci rendiamo conto che da decenni non esiste. E prima ancora, forse, non c’erano veramente gli strumenti per accorgersene. L’establishment politico occidentale è in guerra. La propaganda messa in atto negli ultimi 3 anni (e sicuramente in corso da decenni ma in maniera molto più subdula) è la dimostrazione della crisi profonda in cui si trova la classe dirigente e lo stato profondo in questa parte del mondo. Se c’è bisogno di censurare, significa che c’è qualcosa da nascondere. Non è logico?

Tutti questi politici, finti perbenisti liberal che in realtà hanno un’agenda ben chiara e che – paradossalmente – non nascondono nemmeno poi così tanto la loro vera indole, dando pillole informative ma nascondendone l’essenza e tacciando di complottismo chiunque si azzardi a provare ad indovinarne le conseguenze lapalissiane. Chi sostiene l’establishment è un cittadino modello, un soldatino che regge il gioco di chi vuole distruggerlo. Chi si ribella (e da notare, solo con le parole) è un pericolo, va eliminato lentamente, distrutto fino al midollo. Schiacciato.

Sono giornalista. Reporter. Ho seguito, negli ultimi 7 anni, la maggior parte delle crisi e delle guerre su questo pianeta. Ho rischiato mille vite, sono stato arrestato. All’inizio credevo di combattere con la penna per un mondo più giusto. E sono convinto che in parte lo abbia fatto. Ma l’ho fatto in maniera sbagliata, dando adito a determinate falsità e facendo il gioco dei potenti. Molti giornalisti come me, pensano di fare la cosa giusta. Sono accecati. Non solo censurati se vogliono parlare di qualcosa. E oggi me ne rendo conto. Lo ammetto: io sono parte di quelli che per vivere e mangiare hanno venduto l’anima anche al diavolo, accettando pagamenti bassissimi per rischi enormi, essendo abbandonati e, molte volte, essendo censurati per quello che si voleva dire. Parte di quella categoria di gionarlisti che sono carne da macello, che non valgono nulla perché non hanno il posto in scrivania in una testata mainstream importante. E il sistema spinge tutti a cercare proprio quello. A cercare di avvicinarsi al potere, alle testate più famose (e corrotte) perché è prestigioso, perché sei considerato più serio, bravo, intelligente.

Ma poi, più il tempo è passato, più mi si sono aperti gli occhi. Alcune cose non andavano nel verso giusto. Quando proponevo determinati argomenti mi guardavano storto, storcevano il naso, mi criticavano. Dicevano che “non sapevo” che loro conoscevano meglio. Parlo di alcuni redattori. Era palese che ci fossero molti punti controversi. Un po’ l’ignoranza di certe persone censurava automaticamente. Ignoranza nel senso che non capivano cosa accadeva e che si ostinavano a pensare come automi piuttosto che riflettere. Come spesso si vede nell’ideologia liberal. Quindi, per mangiare, ho tenuto la bocca chiusa per molto tempo, per paura di non essere pagato, di perdere il lavoro, di non essere sostenuto da nessuno e di perdere colleghi, amici, familiari. Forse è il cammino della vita che ti porta a ciò.

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina ho però capito che le cose non potevano più andare avanti così. Videogiochi spacciati in televisione per video di guerra, fotografie di vittime del Donbass spacciate per civili ucraini, sporca propaganda antirussa e misure insulse contro tutto ciò che non era consono all’ideologia “libera e pacifista” europea, arrivata all’apice del ridicolo con bandiere ucraine ovunque e segni di “pace” messi ovunque (europei e americani che nemmeno hanno avuto la decenza di starsene in silenzio dopo tutto quello che fanno tutt’oggi, inconsciamente e consciamente, nel mondo intero con istituzioni monetarie, sottosviluppo, debito per non menzionare guerre e vittime giornaliere).

Non potevo più starmene in silenzio. Partire per il fronte e rischiare di morire per poi essere censurato, per fare propaganda sporca. Non mi andava. Era una sensazione che pulsava dentro di me sempre più forte fino a diventare insopportabile, tanto da non farmi dormire. “Vado o non vado?”. I giornali e le tv  chiedevano di me. Mi ha fatto piacere perché so che sono apprezzato e che svolgo il mio lavoro in maniera professionale.

Ma poi guardando la spazzatura che è uscita in occidente, ho deciso che io non volevo far parte di questo. Era troppo. Non lo nascondo: andare in Ucraina avrebbe significato due cose che ai giornalisti piacciono: “soldi e gloria”. Diventare un reporter conosciuto, scrivere forse un libro, aumentare i miei followers su instagram. Eroico. E poi fare una “carrellata” di soldi. Forse avrei potuto finalmente sistemare i miei problemi economici comprandomi una casa. Si ma una casa macchiata di menzogne.

Ripeto, nel passato ho fatto anche io questo genere di marchette. E non lo nascondo: Polonia, Bielorussia, Africa, Medio Oriente, Afghanistan, ho girato moltissimo. Per me l’Afghanistan è stato rivelatore. Un paese che ho seguito da anni, di cui sono profondamente innamorato anche perché è diventato come casa mia. Osservando quello che è successo l’anno scorso, mi ha scosso ancor di più. La propaganda insulsa fatta in Occidente mi ha talmente stremato, che ho dovuto trattenermi (e non sempre c’è l’ho fatta) dal dire ciò che pensavo. Spesso attaccato. Ma è in quel momento che ho capito che qualcosa doveva cambiare.

Nel settore ci sono molti giornalisti bravi, coraggiosi. Soprattutto fra i miei colleghi che fotografano e scrivono dalle prime linee. Non sono tutti asserviti. Ma spesso hanno paura. Le paure sono molte, dalla censura alla diffamazione oppure, forse uno dei più grandi fattori, il portafogli. Li capisco. Bisogna avere una grande motivazione e coraggio per scrivere quello che sto scrivendo ora. Perché, come si dice in inglese: “there is no way back”. Eppure ci si sente meglio a fare un passo verso la luce e allontanarsi dall’ombra, che, come un diavolo tentatore, cerca di tenerti stretto a lui.

Un mio caro collega, e qui finisco per spiegarvi cosa succede, è stato minacciato seriamente dalle autorità di una regione ucraina perché un giornale importante italiano gli ha cambiato un paragrafo e un titolo intero in prima pagina. Una mossa pericolosa, dettata dalla voglia di click del giornale stesso e dalla brama di propaganda. Nessuno si è preoccupato dell’incolumità del mio collega. Se gli fosse successo qualcosa, a chi sarebbe importato? Sarebbe stata ancora colpa sua perché era li. Eroe finché tutto va bene, ma idiota quando le cose si mettono male.

In sostanza, spero che molti dei miei colleghi si rendano conto di quello che ho visto io, girando e ascoltando le persone. Ma per ora prevale la fastidiosa ideologia del “guarda come siamo umani noi altri”.

Le cose stanno cambiando. Lo sappiamo. Perciò è ora di prendere una decisione. Di decidere: da che parte stai. Io ho scelto! E tu?