di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
Fonte originale: articolo di Gospa News
“Il mio pensiero va a Stefano e ai miei genitori che oggi non sono qui in aula. E’ il caro prezzo che hanno pagato in questi anni”, ha detto Ilaria Cucchi che per 12 interminabili anni si è battuta contro i tentativi di insabbiamento della morte del fratello Stefano, avvenuta nei giorni successivi al suo arresto e alla sua incarcerazione per il possesso di piccoli quantitativi di droga.
La famiglia ha dovuto vendere anche alcuni alloggi per sostenere la battaglia legale orientata a fare luce su quanto avvenuto al 31enne nella caserma dove era stato condotto per gli accertamenti di rito e dove è avvenuta la colluttazione poi risultata fatale, ma a lungo negata dai militari dell’Arma Benemerita.
Oggi, venerdì 7 maggio, sono stati condannati a 13 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati del pestaggio di Stefano Cucchi. E’ quanto hanno deciso i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma nel processo per la morte del trentunenne, arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il verdetto è arrivato dopo cinque ore di Camera di Consiglio.
La sentenza giunge a due giorni da una esattamente opposta in cui sono stati condannati due giovani tossicodipendenti americani per l’efferato omicidio volontario del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, a conferma della difficile e pericolosa attività degli investigatori militari che rischiano ogni giorno la vita anche di fronte ad un ragazzino.
Ma il caso di Cucchi ha fatto scalpore perché il 31enne romano fu picchiato e morì dopo l’arresto, quando la tutela della sua incolumità era ormai nelle mani delle forze dell’ordine. La sua vicenda appare quindi analoga quella dell’uccisione di George Floyd da parte del poliziotto Derek Chauvin che suscitò un inferno di proteste a Minneapolis in un perfetto scenario di propaganda politica antiTrump molto ben architettata. Perché l’eccessivo uso della violenza, nel caso italiano ben occultata per la morte postuma, nel caso americano impossibile da nascondere per la morte immediata, è il denominatore comune delle azioni degli agenti.
Nelle scorse settimane la giuria del tribunale di Minneapolis ha emesso un verdetto di colpevolezza per l’ex agente di polizia Chauvin, per tutti e tre i reati di omicidio dei quali ritenendolo responsabile di aver ucciso il 46enne afroamericano Floyd lo scorso maggio, soffocandolo dopo averlo ammanettato. A breve il giudice Peter Cahill dovrà emettere la sentenza sull’entità della pena che potrebbe essere superiore a 20 anni. Ciò ha riscosso il consenso dell’opinione pubblica in modo esattamente opposto a quando un poliziotto nero di Minneapolis fu condannato per l’uccisione di una donna bianca…Nel processo per l’omicidio preterintenzionale di Cucchi in Italia, invece, è stato condannato anche il carabiniere Roberto Mandolini a quattro anni per falso e confermata la condanna per lo stesso reato a due anni e mezzo per Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio avvenuto nella caserma Casilina la notte dell’arresto. Per quest’ultimo il pg Roberto Cavallone aveva chiesto l’assoluzione.
Tedesco è considerato il supertestimone di questa vicenda. La corte d’assise lo aveva valutato come ‘credibile’. “La narrazione” del militare dell’Arma sulle fasi immediatamente successive all’arresto di Cucchi era stata riscontrata da numerosi elementi.
Tedesco, stando alle motivazioni della sentenza del primo grado, non solo era intervenuto per “cessare l’azione violenta”, impedendo ai colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro di continuare il pestaggio, ma aveva “spiegato in modo comprensibile e ragionevole il suo pregresso silenzio, sottolineando il ‘muro’ che aveva avuto la certezza gli si fosse parato dinnanzi costituito dalle iniziative dei suoi superiori, dirette a non far emergere l’azione violenta perpetrata ai danni di Cucchi, e a non perseguire la volontà di verificare che cosa fosse realmente accaduto”, la sera dell’arresto.
In primo grado, il 14 novembre 2019 la prima Corte d’Assise di Roma aveva condannato a dodici anni di carcere i due carabinieri accusati del pestaggio, Di Bernardo e D’Alessandro riconoscendo che fu omicidio preterintenzionale, come sostenuto dal pm Giovanni Musarò. Era stato assolto invece ”per non aver commesso il fatto” per questa accusa Francesco Tedesco. Per lui era rimasta la condanna a due anni e mezzo per falso. Per la stessa accusa era stato condannato a tre anni e otto mesi il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia.
LA CRONACA DELLA MORTE
Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni, viene fermato dai carabinieri dopo essere stato visto cedere a Emanuele Mancini delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Portato immediatamente in caserma, viene perquisito e trovato in possesso di 12 confezioni di varia grandezza di hashish (per un totale di 20 grammi), tre confezioni impacchettate di cocaina (di una dose ciascuna) e un medicinale per curare l’epilessia, malattia da cui Cucchi era affetto.
Viene decisa la custodia cautelare; il ragazzo prima dell’arresto e dell’arrivo in caserma non ha alcun trauma fisico. Il giorno dopo si tiene l’udienza per la conferma del fermo in carcere, criticata da Luigi Manconi, direttore dell’Ufficio antidiscriminazioni razziali presso la Presidenza del Consiglio, poiché in tale sede «a Cucchi viene attribuita una nazionalità straniera e la condizione di “senza fissa dimora”, nonostante fosse regolarmente residente in città». Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra inoltre evidenti ematomi agli occhi; il ragazzo parla con suo padre pochi attimi prima dell’udienza, ma non riferisce di essere stato picchiato.
Nonostante le precarie condizioni, il giudice fissa l’udienza per il processo che si dovrà tenere un mese dopo, e ordina sino a tale data una custodia cautelare presso il carcere di Regina Coeli. Dopo l’udienza le condizioni di Cucchi peggiorano ulteriormente. Il 16 ottobre, alle ore 23, viene condotto al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli, presso il quale vengono messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al volto (con frattura della mandibola), all’addome con ematuria, e al torace (con frattura della terza vertebra lombare e del coccige). Viene quindi consigliato il ricovero, che però il paziente rifiuta, venendo quindi ricondotto in carcere.
Nei giorni successivi, per l’aggravarsi delle sue condizioni, Stefano Cucchi viene trasferito al reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dove muore all’alba del 22 ottobre: al momento del decesso pesa solamente 37 chilogrammi. Dopo la prima udienza i familiari cercano a più riprese di vedere, o perlomeno conoscere, le sue condizioni fisiche senza successo: essi hanno nuovamente notizie del proprio congiunto solo quando un ufficiale giudiziario si reca presso la loro abitazione per notificare l’autorizzazione del magistrato ad eseguire una autopsia.
Dopo la morte di Stefano Cucchi il personale carcerario nega di avere esercitato violenza sul giovane e vengono formulate diverse ipotesi sulla causa della morte: poteva essere morto o per le conseguenze di un supposto abuso di droga, o a causa di pregresse condizioni fisiche, o per il suo rifiuto del ricovero al Fatebenefratelli.
Il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi dichiara che Stefano Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza, asserendo altresì che il ragazzo fosse sieropositivo. Successivamente, pentito per queste false dichiarazioni, si è scusato con i familiari. Nel frattempo, per contrastare le false affermazioni sulla morte del Cucchi, la famiglia pubblica alcune foto del giovane scattate in obitorio, nelle quali sono ben visibili vari traumi contusivi (“volto tumefatto, un occhio rientrato, la mascella fratturata e la dentatura rovinata”) e un evidente stato di denutrizione.
LE REAZIONI DI PARENTI E AVVOCATI ALLA SENTENZA
“La giustizia funziona con magistrati seri, capaci e onesti. Non servono riforme” ha detto Fabio Anselmo, avvocato di parte civile. “Il nostro pensiero va ai procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Giovanni Musarò – aggiunge il legale -, dopo tante umiliazioni è per merito loro che siamo qui”.
“La mamma di Stefano, la signora Rita Calore, ha pianto non appena ha saputo della sentenza” ha detto l’avvocato Stefano Maccioni, parte civile nel processo, e legale dei genitori di Stefano Cucchi, dopo la sentenza di appello. “L’ho sentita al telefono. E’ un momento di grande commozione. Dopo 12 anni la lotta non è ancora finita. Siamo comunque pienamente soddisfatti della decisione di oggi della Corte d’Appello”.
“Che grande ingiustizia…”. commenta a caldo del carabiniere Raffaele D’Alessandro come riferisce all’Adnkronos il difensore, l’avvocato Maria Lampitella.
“Pensavamo che non si potesse fare peggio della sentenza ingiusta come quella di primo grado” dice l’avvocato Maria Lampitella, difensore del carabiniere Raffaele D’Alessandro, “ma oggi abbiamo la conferma che la giustizia non guarda più al dato processuale e la conferma è oggi con l’accoglimento di una impugnazione completamente inammissibile, che ha condannato ancor più gravemente gli imputati di questo processo. La nostra speranza è il giudice delle leggi, la Cassazione, ci rivedremo lì”.
“Prima di commentare una sentenza bisogna leggere le motivazioni, vedremo su quali basi sono state escluse le attenuanti generiche nei confronti dei carabinieri imputati” commenta l’avvocato Giosuè Bruno Naso, difensore del maresciallo Roberto Mandolini, condannato per falso a 4 anni.
“Sono molto amareggiata, c’è una perizia medica che accerta il fatto che Stefano Cucchi sia morto in conseguenza dell’ostruzione di un catetere, ritengo che l’omicidio preterintenzionale non sia giusto” dice l’avvocato Antonella De Benedictis, che difende Alessio Di Bernardo, annunciando il ricorso in Cassazione.