La damnatio memoriae è notoriamente una locuzione che, nella lingua latina, significa letteralmente “condanna della memoria”. Nel Diritto Romano indicava, infatti, una pena consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia che potesse tramandarla ai posteri, come se essa non fosse mai esistita. Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata in genere agli hostes, ossia ai nemici di Roma, del Senato o dell’Impero; nemici reali o presunti, o divenuti tali in seguito ai loro crimini o, molto più comunemente, dopo essere caduti in disgrazia presso i detentori del potere.
Nell’Urbe, in età repubblicana, tale sanzione – generalmente applicata dal Senato – faceva parte delle pene che potevano essere inflitte a una maiestas e prevedeva la abolitio nominis: il praenomen del condannato non si sarebbe tramandato in seno alla famiglia e sarebbe stato cancellato da tutte le iscrizioni. Inoltre si distruggevano tutte le eventuali raffigurazioni (pittore, scultoree e via dicendo) che lo riguardavano. In certi casi, previo voto positivo del Senato, la damnatio memoriae poteva essere seguita dalla rescissio actorum (annullamento degli atti), ossia dalla completa distruzione di tutte le opere realizzate dal condannato nell’esercizio della propria carica, opere divenute “scomode” proprio in conseguenza della condanna del soggetto, e perciò destinate alla distruzione affinché la loro lettura o diffusione non fosse per il popolo causa di cattivi insegnamenti. E se tale atto avveniva in vita, come in taluni casi è attestato dalle fonti storiche, allora – dal punto di vista giuridico – esso rappresentava una vera e propria morte civile.
In età imperiale l’uso di tale pratica sanzionatoria non conobbe freni e toccò picchi di diffusione inauditi, divenendo quasi una prassi abituale, tanto che ne furono colpiti addirittura numerosi Imperatori, oltre alle loro consorti e a membri autorevoli delle loro famiglie. Tanto che, se un Imperatore veniva spodestato, manu militari o per congiure di palazzo, oltre a temere – a ragione – per la propria vita, doveva inoltre aspettarsi di veder distruggere, per mano di chi gli sarebbe succeduto, non solo la propria autorità ed il proprio alone divino, ma tutto ciò che riguardava la sua figura, con l’inesorabile abbattimento di statue e monumenti onorari e con la cancellazione del proprio nome dalle iscrizioni di tutti i monumenti pubblici.
Per dare un’idea dell’insensata e spropositata diffusione della damnatio memoriae in età imperiale, basterà dire che ne furono colpiti ben venticinque Imperatori (Caligola, Nerone, Aulo Vitellio, Otone, Domiziano, Caio Avidio Cassio, Commodo, Didio Giuliano, Pescennio Nigro, Clodio Albino, Geta, Macrino, Eliogabalo, Massimino il Trace, Treboniano Gallo, Emiliano, Marco Aurelio Caro, Marcio Aurelio Numeriano, Marco Aurelio Carino, Massimiano, Massimino Daia, Massenzio, Licinio, Crispo e Costantino II°), varie Auguste, mogli o madri di Imperatori (fra cui Iulia Agrippina, Bruzia Crispina, Fulvia Plautilla, Iulia Soemia, Iulia Aquila Severa, Iulia Avita Manea, Caia Cornelia Supera e Fausta Massima Flavia) e un certo numero di Prefetti e Consoli, fra cui Caio Cornelio Gallo e Lucio Elio Seiano.
Ma i Romani, anche se, da provetti legislatori quali sempre si dimostrarono, questa pratica la istituzionalizzarono, nei fatti non ne furono gli ideatori. Questo strumento della cancellazione e della damnatio di oppositori, di re e di personaggi divenuti in qualche modo “scomodi” era infatti già praticata nell’Egitto faraonico e presso numerose civiltà del Vicino Oriente antico. Se ne hanno ampie testimonianze addirittura nell’antica Cina e in India.
I Cristiani, una volta preso stabilmente il potere a Roma, è fatto noto che si dedicarono ad una spietata e sistematica persecuzione nei confronti non solo delle loro eresie interne, ma di tutti i culti e di tutte le plurimillenarie religioni dei gentili, trasformando in pochi decenni quello che era un Impero fondato sulla piena tolleranza e libertà religiosa in una teocrazia nelle mani di un manipolo di vescovi fanatici e assetati di sangue, contribuendo così a far scivolare l’intera civiltà occidentale nel baratro del Medio Evo. Innumerevoli furono le illustri vittime di questa tremenda fase persecutoria avviata dai successori di Costantino, e fra tutte spicca la figura di Ipazia di Alessandria, la grande filosofa, iniziata e scienziata barbaramente assassinata nella capitale egiziana nel 415 da monaci istigati dal vescovo Cirillo. E, anche se la damnatio memoriae continuò meno, in poca cristiana, da un punto di vista istituzionale (vi fu un drastico calo di formali condanne a tale pratica sanzionatoria, soprattutto nei confronti di Imperatori ed alte cariche dello Stato), essa divenne una prassi comune, quasi obbligata, nei confronti dei nemici e degli avversari – interni ed esterni – della Chiesa. Nemici ed avversari dei quali si tentò con ogni mezzo di cancellare o di obliarne la memoria, arrivando ad utilizzare la calunnia e la deliberata distorsione storica di fatti e vicende ad essi legate.
Ma la vittima più illustre, con il consolidarsi del potere della superstitio prava et immodica (come la definì Plinio), exitiabilis superstitio o superstitio malefica, come la definirono rispettivamente Tacito e Svetonio, fu senza dubbio la Tradizione Occidentale. Come sottolineò il grande Arturo Reghini nel suo saggio Sulla Tradizione Occidentale, l’intolleranza religiosa, per cui diviene delitto perseguibile legalmente l’eterodossia del pensiero, non era sicuramente un carattere greco-romano. Il santo zelo della propaganda neppure; la subordinazione dei doveri del cittadino a quelli del credente, degli interessi della patria terrena a quelli della patria celeste neppure; la pretesa di rinchiudere la verità negli articoli di un credo, il fare dipendere la salvezza dell’anima dalla professione di una determinata credenza e dalla osservanza di una determinata morale neppure; lo spirito anarchico e democratico della fratellanza universale ed obbligatoria, della similitudine del prossimo e dell’eguaglianza neppure. Ci fa infatti notare sempre Reghini che «Non è il Cristianesimo che sia o sia divenuto occidentale, ma è l’Occidente che in certo modo è divenuto cristiano». E questa forzata cristianizzazione dell’Occidente, imposta con la spada e con lo scudo e al prezzo di centinaia di migliaia di martiri, ne ha pesantemente stravolto (anche se non cancellato del tutto) l’anima e la più intima essenza.
Ma la Tradizione non è un’astrazione o un mero concetto simbolico; essa è fatta anche di persone, di uomini e donne che, con il loro operato, con i loro scritti o con le loro azioni hanno contribuito a plasmarla, ad arricchirla e a difenderla. Personaggi come, ad esempio, gli Imperatori Flavio Eugenio e Flavio Claudio Giuliano e grandi donne, martiri ed iniziate, come l’Augusta Galeria Valeria e la filosofa Ippazia di Alessandria, che la Chiesa (e con essa il pensiero unico e totalizzante che ha usurpato l’Occidente) hanno condannato a secoli di damnatio memoriae.
In taluni casi si è arrivati addirittura, in un curioso parallelismo con la sovrapposizione e sostituzione “sincretica” di santi cristiani alle Divinità gentili originariamente venerate in determinati templi, santuari o altri luoghi di culto, alla creazione ad hoc di figure immaginarie di santi, costruite ed amplificate dall’agiografia, destinate ad essere sovrapposte a figure scomode del precedente regime dottrinale e, nei fatti, a sostituirle nell’immaginario popolare. Il ricorso ad una simile pratica si rendeva necessario, agli occhi della Chiesa, soprattutto quando le figure da obliare risultavano particolarmente “ingombranti” o nel caso in cui fossero state talmente note presso l’opinione pubblica da renderne praticamente impossibile una cancellazione o una semplice damnatio memoriae tout court.
E questo fu proprio il caso di Ipazia di Alessandria, per la cancellazione della cui memoria la Chiesa dovette inventarsi una figura che ne rivestisse, seppur abilmente invertite e ribaltate nei contenuti, le principali caratteristiche. Stiamo parlando della figura di Santa Caterina di Alessandria.
Un interessante articolo di Sergio Michilini, intitolato Masolino, il Cardinal Branda e il transfert Ipazia/Caterina d’Alessandria, riprendendo ed ampliando su nuove prospettive quanto già scritto da Silvia Ronchey nel suo saggio Ipazia, la vera storia, traccia un interessante parallelismo fra la figura della grande iniziata, scienziata e filosofa neoplatonica e quella di Santa Caterina d’Alessandria, la vergine e martire presuntamente uccisa nella capitale egiziana dai “pagani” nell’anno 305 dell’era volgare, quindi quasi un secolo prima del martirio di Ipazia.
Occorre premettere che non esiste alcuna prova storica fondata della reale esistenza di questa ipotetica “martire” cristiana, tanto che la stessa agiografia non è mai stata in grado di indicarne, neppure in maniera approssimativa, la data della nascita. E, al di là delle leggende popolari, le uniche fonti scritte che ne fanno menzione sono posteriori di diversi secoli ai fatti che pretenderebbero di narrare. La più antica è una passione scritta in lingua greca fra il VI° e il VII° secolo; vi sono poi un’altra passione, la Passio Sanctae Katherinae Alexandriensis, di autore sconosciuto e databile fra il 1033 e il 1048, e la più nota Leggenda Aurea di Jacopo Da Varagine, databile fra il 1260 e il 1298, il cui capitolo CLXIX° è in sostanza la fonte principale di tutte le speculazioni agiografiche successive che hanno interessato e glorificato questo fantasmagorico personaggio.
Secondo la tradizione popolare cristiana, Caterina sarebbe stata una bella e giovane vergine egiziana educata secondo i dettami del Cristianesimo. La Leggenda Aurea del Da Varagine la fa addirittura figlia di re e istruita fin dall’infanzia nelle arti liberali. Sempre secondo la tradizione, nell’anno 305 un imperatore romano avrebbe tenuto grandi festeggiamenti in proprio onore ad Alessandria. La Leggenda Aurea parla di Massenzio, ma molti ritengono che si tratti di un errore di trascrizione e che l’imperatore in questione possa essere stato invece Massimino Daia, che proprio nel 305 fu proclamato Cesare per l’Oriente nell’ambito della Tetrarchia (Governatore d’Egitto in quell’anno era invece, fin dal 303, il prefetto Clodio Culciano, che non pare possa essere il protagonista della storia). Caterina si presentò a palazzo nel bel mezzo dei festeggiamenti, nel corso dei quali si celebravano “feste pagane” con sacrifici di animali e accadeva anche che molti cristiani, per paura delle persecuzioni, accettassero di adorare gli Dei. La giovane rifiutò i sacrifici e chiese all’imperatore di riconoscere Gesù Cristo come redentore dell’umanità, argomentando la sua tesi con profondità filosofica. L’imperatore, che, secondo la Leggenda Aurea, sarebbe stato colpito sia dalla bellezza che dalla cultura della giovane nobile, convocò allora un gruppo di retori affinché la convincessero ad onorare gli Dei. Tuttavia, non solo questi retori non riuscirono a convincerla, ma essi stessi dall’eloquenza di Caterina sarebbero stati prontamente convertiti al Cristianesimo. L’imperatore, infuriatosi, ordinò allora la condanna a morte di tutti questi retori e, dopo l’ennesimo rifiuto di Caterina ad onorare gli Dei, la condannò a morire anch’essa su una ruota dentata. Ma, narra sempre la tradizione agiografica, lo strumento di tortura e condanna si ruppe e Massimino fu obbligato a far decapitare la santa, dal cui collo sgorgò latte, simbolo della sua purezza.
Sempre secondo l’agiografia, dopo il martirio il corpo di Caterina sarebbe stato trasportato dagli angeli sul Monte Sinai, e in questo luogo, nel VI° secolo, l’imperatore Giustiniano fondò il celebre monastero che ancora oggi porta il nome della santa.
Questo riporta il sito cattolico www.santodelgiorno.it alla voce Santa Caterina d’Alessandria, basandosi su una traduzione alquanto disinvolta del capitolo 172 della Leggenda Aurea del Da Varagine, quello appunto dedicato alla fantomatica santa:
«Nata da stirpe reale, fu dotata dalla natura di un ingegno e di una bellezza così rara, che era stimata la più fortunata giovane della città. Ammaestrata in tutte le scienze, ma soprattutto nella filosofia dai più celebri retori, seppe innalzare il suo intelletto al disopra delle cose materiali, e dalle creature ascendere al Creatore. Perciò, appena senti parlare della religione di Cristo, il suo acuto ingegno aiutato dalla grazia di Dio comprese che essa era la vera, e l’avrebbe abbracciata subito, se alcuni legami terreni non le avessero impedito il passo decisivo. Ma il Signore, che la voleva sua sposa, affrettò il suo ingresso nello stuolo delle candide colombe a lui consacrate.
Compresa dell’amore che il Signore nutriva per lei, si fece battezzare, dedicandosi totalmente alla beneficenza ed alla istruzione dei pagani. E tanto crebbe la fama della sua carità e del suo sapere, che giunse alle orecchie dello stesso imperatore Massimino. uomo tristemente celebre per la sua ferocia.
Egli fece chiamare Caterina alla sua presenza, per avere notizie più certe di ciò che di lei udiva e per conoscere più da vicino colei che tanto si celebrava. Ma appena seppe dalla bocca stessa della Santa che era cristiana, subito con minacce ed imprecazioni ordinò che rinunciasse a quel culto da lui odiato, e sacrificasse a Giove.
Non si sgomentò il virile animo di Caterina a quelle parole, ma prontamente rispose ch’era risoluta di rimanere nella religione che professava, e incominciò a parlare della vanità degli dai e della verità dell’unico vero Dio con parole così ardenti che l’imperatore medesimo rimase sconcertato.
Fu quindi affidata ad alcuni filosofi pagani perché la convincessero d’errore, ma ella riuscì a condurli alla vera religione. A tale smacco il feroce imperatore condannò a morire sul rogo quei nuovi convertiti, e presa Caterina, dopo villanie e disprezzi, comandò che il suo corpo fosse legato ad una ruota e poscia con uncini le fossero strappate le carni.
La Santa non si intimorì per simile supplizio, ma felice di dar la vita per il suo Sposo, si apprestò a morire fra quei tormenti. Appena quel corpo verginale fu a contatto con lo strumento del suo martirio, questo si spezzò fragorosamente, producendo gran panico fra i carnefici. Non si piegò l’animo di Massimino, e comandò che la Santa fosse immediatamente condotta fuori della città e le fosse reciso il capo. Giunta al luogo del martirio, le furono bendati gli occhi ed il carnefice con un colpo staccò il capo di Caterina, ma da quella ferita sgorgò abbondante latte, ultima testimonianza della sua innocenza. Il suo corpo venne dagli stessi Angeli trasportato sul monte Sinai e quivi seppellito. Sul suo sepolcro fu poi edificato un sontuoso tempio ed un grandioso monastero che resero imperitura la memoria di questa vergine di Cristo».
Come sottolinea Silvia Ronchey nel suo saggio, la storia, o “passione” di questa martire, che avrebbe ispirato in seguito addirittura Giovanna D’Arco (è infatti identificata, insieme a Santa Margherita di Antiochia ed all’Arcangelo Michele, come una delle “voci” che guidarono la pulzella di Orleans) si materializzò molto tardivamente nei testi martirologici (come abbiamo visto, non prima del VI° secolo) «ma fu solo nel nono che affiorò nella devozione dei sant’uomini del monastero fatto costruire da Giustiniano sul monte Sinai, dedicato alla Trasfigurazione, ma che da allora prese il nome di Santa Caterina del Sinai. La santa-fantasma divenne allora celebre sia nel mondo bizantino, sia, o anzi soprattutto, in occidente, e più per la sua diffusione iconografica che per quella letteraria». Tanto che in Francia è divenuta la patrona degli studenti di Teologia e delle apprendiste sarte, mentre in Italia non solo è arrivata ad essere riconosciuta come patrona degli studenti di Giurisprudenza nelle università di Padova e di Siena, ma addirittura come protettrice di cartai, ceramisti, mugnai e filosofi (sic!) e patrona di oltre cinquanta comuni, fra cui Bertinoro, Guastalla, Deruta, Dorgali, Scandiano, Locri e Paceco. E sono ben trentacinque, soltanto in Italia, le chiese ad essa dedicate.
Sempre secondo la Ronchey, gli studiosi dell’esiguo numero di pasiones bizantine che la menzionano non hanno potuto fare a meno di sospettare «che alla santa cristiana siano stati prestati i tratti della “santa laica” – e vergine e martire laica – massacrata non dall’imperatore romano Massimino, insidiatore del legittimo scettro di Costantino, ma dal faraone del monofisismo egizio Cirillo, usurpatore del legittimo potere statale emanante dal governo centrale di Costantinopoli». In sostanza, i tratti della martire Ipazia di Alessandria!
Che il martirio di Santa Caterina d’Alessandria e la sua esistenza storica fossero un falso clamoroso, sottolinea sempre la Ronchey, venne sostenuto già nel XVIII° secolo dal dotto Jean Pierre Defòris, tanto che la sua festa fu abolita dal Breviario di Parigi. Il povero Dom Defòris morì ghigliottinato nel 1794, ma lo scetticismo degli studiosi, sia laici che ecclesiastici, sopravvisse, motivato anche dalla mancanza di tracce della venerazione della sepoltura della santa negli itinerari dei pellegrini altomedioevali al Sinai, nonostante la leggenda volesse che qui il suo corpo e la sua testa fossero stati miracolosamente trasportati dopo il martirio da due angeli.
Le scarse e improbabili notizie sulla sua vita hanno sempre fatto dubitare della reale esistenza di una santa Caterina d’Alessandria d’Egitto. La stessa Chiesa Cattolica ha spesso espresso a riguardo i suoi seri dubbi, tanto che la santa venne clamorosamente esclusa dal Martirologio nel 1962 e la sua cancellazione dal calendario liturgico venne confermata da Papa Paolo VI° nel 1969, in quanto «personaggio non storico, mai esistito». Sarà reintrodotta nel culto e nel calendario liturgico, seppur “in maniera facoltativa” soltanto diversi anni dopo ad opera di Papa Benedetto XVI°, lo stesso che ha promosso solenni festeggiamenti in onore del “Dottore della Chiesa” Cirillo, nominato tale nel 1882, dopo millecinquecento anni dal suo sanguinoso episcopato, dal suo predecessore Leone XIII°, un Papa ossessionato dalla Massoneria e dai liberali mangiapreti che dominavano nella Roma dei suoi tempi».
Al contrario della fantomatica Caterina d’Alessandria, l’esistenza di Ipazia di Alessandria e il suo martirio (che venne occultato per secoli) perpetrato ad opera del vescovo Cirillo e dei suoi fanatici monaci, è dettagliatamente e abbondantemente documentato da fonti attendibilissime, fin dai giorni dei tragici eventi di Alessandria che, ricordiamo, iniziarono con la distruzione della più grande Biblioteca del mondo antico, sede di tutto il sapere romano-ellenistico e grande centro di trasmissione iniziatica.
Ma, tornando all’interessante articolo di Sergio Michilini, vediamo come l’autore abbia individuato ulteriori conferme, oltre ad interessanti aspetti esoterici che più avanti approfondiremo, del transfert Ipazia – Santa Caterina in un celebre ciclo di affreschi aventi come oggetto la storia della fantomatica santa, realizzati da Masolino Da Panicale nella basilica di San Clemente a Roma, proprio in una cappella alla santa alessandrina dedicata.
Masolino da Panicale: Santa Caterina e i Filosofi di Alessandria (1430), uno degli
affreschi del ciclo pittorico commissionato dal Cardinale Branda Castiglioni e dedicato ufficialmente a Santa Caterina nella Basilica di San Clemente a Roma
Questo ciclo di affreschi venne commissionato a Masolino dal Cardinale Branda Castiglioni (1350-1443), una straordinaria figura di umanista e mecenate, divenuto, per via delle sue potenti amicizie in varie corti italiane ed europee, un preciso punto di riferimento per la cultura quattrocentesca.
Primogenito di una nobile famiglia milanese, Branda Castiglioni rinunciò ai privilegi della nobiltà per dedicarsi sin da giovane alla carriera ecclesiastica. Compì i suoi primi studi a Milano e nel 1374 lo troviamo iscritto nel collegio dei Nobili Giureconsulti della città lombarda. Si iscrisse poi all’Università di Pavia, conseguendovi nel 1389 il dottorato in Diritto Civile e Canonico e finendovi poi ad insegnare per un breve periodo. Nello stesso anno venne inviato a Roma da Gian Galeazzo Visconti, presso la corte di Papa Bonifacio IX°, con lo scopo ufficiale di ottenere privilegi e garanzie in favore dell’Università di Pavia, l’autorizzazione a introdurvi l’insegnamento di Teologia ed il conferimento delle medesime condizioni concesse alle Università di Bologna e di Parigi.
Nello stesso periodo venne nominato Uditore del Collegio della Sacra Rota da Bonifacio IX°, il quale lo inviò poi dapprima in Germania come legato pontificio e poi a Colonia e nelle Fiandre come nunzio apostolico e, infine, in un’altra missione in Ungheria e in Transilvania. Fu in questa occasione che nacque una profonda amicizia fra Branda Castiglioni e Sigismondo di Lussemburgo, Re d’Ungheria, Croazia e Boemia, Rex Romanorum e Imperatore del Sacro Romano Impero.
Nel 1409 prese parte al Concilio di Pisa, indetto per porre fine allo scisma d’Occidente e per risolvere una controversia tra un Papa eletto a Roma ed un altro eletto ad Avignone. Al termine di tale Concilio venne eletto Papa Alessandro V°, il quale normalizzò la situazione ma morì pochi mesi più tardi. Suo successore fu Giovanni XXIII°, il napoletano Baldassarre Cossa (bollato poi, a torto, come “antipapa”), il quale reinviò Branda Castiglioni in Ungheria come legato pontificio, nominandolo poi, nel 1411, Cardinale di Santa Romana Chiesa. Nomina che indubbiamente rafforzo la sua posizione presso Sigismondo di Lussemburgo e, di conseguenza, con il Duca di Milano Filippo Maria Visconti.
Il perdurare dello scisma rese necessaria l’apertura di un nuovo Concilio che aprì a Costanza il 5 Novembre 1413 alla presenza di Giovanni XXIII e di Sigismondo. Branda Castiglioni partecipò a parecchie sessioni e si adoperò per giungere ad un accordo. L’11 Novembre del 1417 il conclave proclamò eletto Papa Ottone Colonna, che assunse il nome di Martino V° e fu l’unico Pontefice riconosciuto da tutta la Chiesa, il quale nel 1421 lo inviò in Boemia come legato pontificio, con lo scopo di arginare il movimento ereticale dei seguaci di Jan Hus, e da qui di nuovo a Colonia, al fianco di un potente esercito imperiale capitanato da Filippo Scolari (meglio noto come Pippo Spano).
Terminata la crociata, il Cardinale Branda Castiglioni proseguì la sua attività diplomatica in Ungheria dove, nel 1411, era stato insignito del titolo di Conte di Veszprém. Passò poi nuovamente in Germania con l’incarico di riformare il clero tedesco.
Rientrato in Italia partecipò alle trattative fra Milano e Firenze. Era infatti considerato un grande amico della famiglia Medici, anche se si mantenne sempre fedele ai Visconti.
Nel 1431, dopo aver convocato alcune sessioni di un nuovo Concilio a Basilea, moriva Papa Martino V°, al quale successe Eugenio IV°, eletto dai Padri Conciliari di Branda Castiglioni. Il Concilio si concluse nel 1437, stabilendo che si sarebbe riconvocato a Firenze per tentare una riconciliazione tra la d’Occidente e quella d’Oriente. Il nuovo Concilio si tenne a partire dal 1438, in varie sessioni, tra le città di Firenze e Ferrara e Branda Castiglioni vi sottoscrisse i più importanti documenti di Papa Eugenio IV°, mentre fu ospite della casa dei Medici e consolidò con la città di Firenze rapporti intrapresi già con successo qualche anno prima. Si trattò del medesimo Concilio che vide la presenza, in qualità di consigliere dell’Imperatore bizantino Giovanni VIII°, del grande Giorgio Gemisto Pletone, suprema guida dell’Ordine degli Eleusini di Rito Pitagorico, che proprio a Firenze aveva messo solide radici con l’apertura dell’Accademia Platonica, grazie all’operato di Cosimo dei Medici e di altri grandi iniziati come Marsilio Ficino e Matteo Palmieri.
Come ho scritto nel primo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, pochi sanno che alcune Scuole e Tradizioni Misteriche dell’antichità, in primis quelle Eleusine di Rito Madre e di Rito Pitagorico, sono sopravvissute fino ai nostri giorni, infiltrandosi addirittura all’interno della Chiesa, e determinando alcuni fra i maggiori eventi e fra le maggiori trasformazioni sociali degli ultimi secoli, a cominciare dal Rinascimento. Il Rinascimento, infatti, per via della presenza attiva di importanti iniziati Eleusini all’interno delle principali Corti e Signorie dell’Italia centro-settentrionale del XV° e XVI° secolo (in particolare in quella dei Medici a Firenze, in quella Estense a Ferrara e in quella dei Da Varano a Camerino) potette esplodere in tutto il suo splendore, con la riscoperta dell’Arte, della Filosofia e della Letteratura della Classicità e con una piena rinascita delle Scienze, accompagnata ad una vera rinascita delle coscienze.
A differenza di altri illustri personaggi di quel tempo, di cui è attestata e ben documentata l’appartenenza a determinati circoli iniziatici “pagani” di ambito pitagorico o neoplatonico, non ho fino ad oggi trovato elementi tali per poter confermare con certezza l’appartenenza a certi ambiti del Cardinale Branda Castiglioni. Anche se la sua figura di amico di potenti, legato da profonde amicizie con i sovrani dell’epoca, umanista, mecenate della cultura e delle arti attento alle correnti artistiche e letterarie del momento, tanto da farne un indiscusso punto di riferimento per tutta la cultura del suo tempo, farebbero propendere per questa ipotesi.
Ma, ancor più di queste sue caratteristiche non di poco conto, l’indizio maggiore di una segreta appartenenza di Branda Castiglioni ad ambiti iniziatici tutt’altro che cristiani potrebbe fornircelo proprio il fatto di aver commissionato a Masolino da Panicale il ciclo di affreschi su Santa Caterina d’Alessandria proprio nella basilica di S. Clemente a Roma, nel cuore della Cristianità.
A prescindere da una sua ipotetica appartenenza iniziatica, un uomo di profonda cultura come Branda Castiglioni non poteva certo ignorare la figura di Ipazia di Alessandria e l’artificiosità del mito agiografico della santa, fino ad arrivare alla sostituzione “sincretistica” della prima con la seconda operato dalla Chiesa nel tentativo di cancellarne per sempre la memoria.
Che ragione poteva avere, quindi, un Cardinale di Santa Romana Chiesa a commissionare a un artista come Masolino da Panicale (non certo estraneo alle simbologie esoteriche), fra un numero di santi e martiri pressoché sterminato a disposizione, proprio degli affreschi dedicati alla santa-fantasma nel cuore del potere papale?
La mia è soltanto un’ipotesi che forse non troverà conferma, ma ritengo che egli volesse lanciare un preciso messaggio a chi era in grado di comprenderlo: che la Filosofia, e con essa la Tradizione Iniziatica dell’Occidente, nonostante secoli di persecuzioni, era più viva che mai e che il Rinascimento delle Arti, della Sapienza e della Cultura, che in quegli anni stava prendendo forma, avrebbe presto gridato al mondo intero, attraverso lo splendore sibillino delle sue grandi opere d’arte, che Ipazia stessa era viva, più viva che mai, nei cuori e nelle menti degli uomini liberi.