di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
Fonte originale: inchiesta di Gospa News
Nel momento della sua fulminea nomina, il giorno successivo all’insediamento del presidente americano Joseph Biden alla Casa Bianca, il Direttore dell’Intelligence Nazionale Usa, Avril Haines aveva annunciato l’imminente desecretazione del dossier sulla morte del giornalista Jamal Khashoggi.
Chi attendeva con ansia questo momento è rimasto un po’ deluso perché il rapporto rivelato dall’ODNI (Office Director of National Intelligence), la plancia di comando per tutte le agenzie dei servizi segreti dalla CIA alla NSA del Pentagono, non ha fatto altro che ribadire – con l’ufficialità fragile di un carteggio di un’intelligence di parte – quanto già in parte noto a tutti i media in relazione al presunto ruolo di “mandante” del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman nella brutale uccisione del famoso opinionista arabo del Washington Post.
Khashoggi, lontano parente della famiglia reale, era scomparso nell’ottobre 2018 dopo essere entrato al Consolato Generale saudita a Istanbul. Riyadh ha inizialmente negato di essere a conoscenza del suo destino ma in seguito ha ammesso che il giornalista era stato brutalmente assassinato all’interno della sede diplomatica, negando però ogni coinvolgimento dei membri della famiglia reale nell’omicidio che definì una “operazione canaglia”.
Infatti il giornalista era entrato nel Consolato del suo paese a Istanbul la mattina del 2 ottobre 2018 per ottenere i documenti per sposarsi con la fidanzata turca, Hatice Cengiz, che era rimasta fuori ad attenderlo invano. Fu infatti ucciso ed il suo corpo fatto a pezzi per far sparire ogni traccia.
«Valutiamo che il principe ereditario dell’Arabia Saudita Muhammad bin Salman abbia approvato un’operazione a Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi – si legge nella breve relazione di 4 pagine dell’ODNI – Basiamo questo valutazione sul controllo del principe ereditario sul processo decisionale nel Regno dal 2017, il diretto coinvolgimento di un consulente chiave e di membri del dettaglio protettivo di Muhammad bin Salman nell’operazione e il sostegno del principe ereditario all’uso di misure violente per mettere a tacere i dissidenti all’estero, compreso Khashoggi. Dal 2017, il principe ereditario ha avuto il controllo assoluto del regno organizzazioni di sicurezza e intelligence, rendendo altamente improbabile che i funzionari sauditi lo avrebbero fatto ha effettuato un’operazione di questo tipo senza l’autorizzazione del principe ereditario».
A distanza di quasi tre anni, nei quali i responsabili sono stati condannati dai giudici del Regno Saudita prima a morte e poi “graziati” con enormi riduzioni delle pene, i documenti declassificati dalla direttrice ODNI, Avril Haines, ex vice direttore CIA nell’amministrazione Obama poi divenuta una delle sospette profetesse della pandemia da Covid-19 insieme a Bill Gates partecipando alla famosa esercitazione Event 201 dell’ottobre 2019 finanziata dalla Fondazione del tycoon di Microsoft, aggiungono pochi dettagli certi e pertanto assumono l’importanza di una mossa politica invece che di un contributo alla giustizia internazionale invocata da ONU e dalla fidanzata della vittima.
IL RUOLO DELLA GUARDIA REALE RAPID INTERVENTION FORCE
«Al momento dell’omicidio Khashoggi, il principe ereditario probabilmente ha promosso un ambiente in cui gli assistenti temevano che potesse verificarsi il mancato completamento dei compiti assegnati in lui sparandogli o arrestandoli. Ciò suggerisce che era improbabile che gli aiutanti facessero domande a Muhammad bin Salman o intraprendesero azioni sensibili senza il suo consenso» aggiunge il report dell’intelligence USA che naviga nella sfera delle supposizioni prima di svelare qualche elemento circostanziato.
«La squadra saudita di 15 membri è arrivata a Istanbul il 2 ottobre 2018 inclusa funzionari che lavoravano per o erano associati al Centro saudita per gli studi e i media Affari (CSMARC) presso la Corte Reale. Al momento dell’operazione, CSMARC era guidato da Saud al-Qahtani, stretto consigliere di Muhammad bin Salman, che affermò pubblicamente a metà 2018 che non ha preso decisioni senza l’approvazione del principe ereditario» riferisce il documento ODNI.
«La squadra comprendeva anche sette membri dell’élite personale di Muhammad bin Salman dettaglio protettivo, noto come Rapid Intervention Force (RIF). Il sottoinsieme RIF, la guardia reale saudita esiste per difendere il principe ereditario, risponde solo a lui e lo aveva fatto ha partecipato direttamente a precedenti operazioni di soppressione dei dissidenti nel Regno e all’estero sotto la direzione del principe ereditario. Riteniamo che i membri del RIF non l’avrebbero fatto ha partecipato all’operazione contro Khashoggi senza l’approvazione di Muhammad bin Salman».
Il documento si conclude con un elenco di sauditi che avrebbero avuto un ruolo in questa azione “pre-programmata” ma non si sa «con quanto anticipo» aggiunge l’ufficio diretto da Avril Haines prima di esporre un altro fondamentale elemento aleatorio «abbiamo grande convinzione che le seguenti persone abbiano partecipato, ordinato o fossero altrimenti complici o responsabili della morte di Jamal Khashoggi per conto di Muhammad bin Salman. Non sappiamo se questi individui sapessero in anticipo che l’operazione sarebbe avvenuta con la morte di Khashoggi».
NESSUNA SANZIONE PER IL PRINCIPE EREDITARIO
Le informazioni raccolte dal “NIO (National Intelligence Officer) for Near East” e dal potente controspionaggio della Central Intelligence Agency non ha però saputo – o voluto – svelare il probabile movente dell’omicidio, a suo tempo ipotizzato da due interessanti inchieste giornalistiche che non furono prese in grande considerazione dai servizi segreti USA perché rischiavano di riaprire una ferita dolente.
Sia l’Herald Sun autraliano che il Florida Bulldog americano, infatti, evidenziarono come probabile causa del delitto le troppe cose di cui era a conoscenza Kashoggi sul ruolo dei sauditi negli attentati dell’11 settembre.
Prima di vedere perché questa pista è quanto meno verosimile e supportata da indizi significativi analizziamo le immediate conseguenze del dossier dell’ODNI. Il documento esprime “un’alta convinzione” sulle responsabilità degli individui coinvolti nella morte del giornalista.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden venerdì ha detto che “cambiamenti significativi” alle politiche tra Stati Uniti e Arabia Saudita saranno annunciati già lunedì. “Ho parlato ieri con il re, non con il principe. Gli ho chiarito che le regole stanno cambiando e che annunceremo cambiamenti significativi”, ha detto Biden a Univision in un’intervista. “Li considereremo responsabili delle violazioni dei diritti umani e faremo in modo che […] se vogliono trattare con noi, dovranno affrontarlo in modo tale da trattare le violazioni dei diritti umani”.
In concreto, però, il principe saudita Mohamed bin Salman non sarà colpito da sanzioni Usa. Lo riporta Politico citando fonti dell’amministrazione Usa. Il Tesoro americano si appresta invece a varare sanzioni sul generale saudita Ahmed al-Asiri, ex vice responsabile dei servizi di intelligence di Riad, per l’assassinio Khashoggi. Sanzioni anche per la Saudi Rapid Intervention Force coinvolta nell’omicidio.
Il Dipartimento di Stato Usa vara la cosiddetta ‘Khashoggi policy’ o ‘Khashoggi ban’ per punire tutte le persone che, agendo in nome di un governo, si pensa abbiano direttamente partecipato o partecipino in attività contro i dissidenti “gravi e di natura extraterritoriale”. Lo riporta l’agenzia Bloomberg. L’amministrazione Usa avrebbe già identificato 76 persone che potrebbero essere sanzionate con il ritiro o la restrizione dei visti.
“Il governo del regno dell’Arabia Saudita rifiuta completamente la valutazione negativa, falsa e inaccettabile contenuta nel rapporto relativo alla leadership del regno, e osserva che il rapporto conteneva informazioni e conclusioni inesatte”, ha detto in un comunicato il ministero degli Esteri saudita.
Il segretario generale della Lega araba Ahmed Aboul Gheit ha «ha espresso il suo sostegno alla dichiarazione del ministero degli Esteri saudita che confuta le conclusioni del rapporto dell’intelligence statunitense, sottolineando che quest’ultimo non è un organo giudiziario o internazionale e che le questioni relative ai diritti umani non dovrebbero essere politicizzate».
LA QUESTIONE DELLE ARMI AMERICANE ALL’ARABIA SAUDITA
In soltanto un mese dal suo insediamento è la seconda volta che il presidente Biden prende di mira il Regno dell’Arabia Saudita. In precedenza aveva infatti sospeso la vendita di armi a Riyad e Abu Dhabi (capitale UAE) in relazione all’embargo sullo Yemen, sovente violato da fornitori come la coropration bellica americana Raytheon attraverso subappalti come quello alla Rehinmetall tedesca che ha utilizzato la fabbrica della filiale italiana (in Sardegna) per onorare le forniture con vari escamtoge di recente bloccati dal governo di Roma proprio dopo il provvedimento di Biden.
Va però rammentato che gli “Accordi di Abramo” sulla normalizzazione dei rapporti tra i paesi del Golfo Persico con Israele potranno consentire a Tel Aviv di diventare un intermediario nel business degli armamenti.
«I ministri israeliani hanno approvato domenica acquisti di armi per un valore di 9 miliardi di dollari con gli Stati Uniti, ha riferito il New Arab. L’accordo considerevole include l’acquisto di elicotteri Chinook, aerei da guerra F-35 e navi cisterna per il rifornimento aereo, oltre a una grande quantità di bombe e munizioni» ha scritto Middle East Monitor lo scorso 14 febbraio.
Pochi giorni dopo Biden ha twittato: «Ho parlato oggi con il premier israeliano Netanyahu e ho affermato il fermo impegno degli Stati Uniti per la sicurezza del nostro alleato Israele. I nostri team sono in costante contatto per rafforzare la cooperazione strategica USA-Israele su tutte le questioni di sicurezza regionale, compreso l’Iran”. Circa una settimana dopo il POTUS (President of the United States) ha ordinato agli F-35 dell’US Air Force di bombardare le milizie iraniane in Siria che da anni sono perseguitate dai missili dell’Israeli Defense Forces.
Non va inoltre dimenticato che la Raytheon ha avuto fino ad alcune settimane fa un consulente americano di eccezione: il generale Lloyd Austin, già comandante di varie missioni in Medio Oriente congedatosi dall’esercito Us nel 2016, nominato da Biden.
Ed è importante ricordare che durante la precedente amministrazione del presidende Barack Obama (di cui era vice lo stesso Biden) il Pentagono e il progetto CIA Mom fornì missili Raytheon alle fazioni jihadiste siriane, con la scusa che fossero ribelli contro il regime di Bashar Al Assad nel tentativo di regime change pianificato dalla stessa Central Intelligence Agency fin da quando governava il padre Haziz nel 1983, come conferma un documento desecretato dagli USA e pubblicato in esclusiva da Gospa News.
Come rivelò il dossier SETA, altro studio svelato in anteprima in Europa dal nostro webmedia, a 21 gruppi sospettati di essere legati al terrorismo islamico furono infatti regalate forniture dei micidiali razzi anticarro BGM-71 TOW (Tube-launched, Optically tracked, Wire-guided – lanciato da un tubo, tracciato otticamente, teleguidato), progettati da Hughes Aircraft negli anni ’60, ma attualmente prodotti da Raytheon.
E’ pertanto lecito supporre che la preziosa vendita di bombe americane all’Arabia Saudita potrà continuare attraverso altri canali: non solo Israele ma anche il Regno Unito, già protagonista di un colossale business nella Lobby delle Armi con i Fratelli Musulmani, come vedremo in altri reportage.
Ecco perché la verità è sembre nascosta dietro a un velo d’ipocrisia diplomatica come nel caso dell’omicidio del giornalista musulmano del Washington Post.
IL GIORNALISTA DEI FRATELLI MUSULMANI
Quando mi mi si a cercare informazioni aggiornate sulla strage dell’11 Settembre 2001 per scrvere un sintetico reportage volto ad evidenziare le complicità internazionali dietro agli attentati attribuiti ad Al Qaeda mi sono imbattuto in alcuni preziosi articoli che hanno messo in correlazione l’attacco alle Twin Towers del World Trade Center con l’uccisione di Jamal Khashoggi.
La questione è così complessa ed oscurata da depistaggi che non ho la pretesa di diffondere certezze assolute. Ma i reportages cui farò riferimento si avvalorano a vicenda e l’attendibilità di uno di essi è indirettamente confermata dall’autorevolezza di un giornalista che fece vari scoop intervistando alcuni dei senatori americani che sostennero non solo la tesi di un intrigo internazionale dietro al complotto stragista ma incolparono senza alcuna remora proprio l’Arabia Saudita.
Sul giornale australiano Herald Sun il reporter investigativo Andrew Bolt già il 16 ottobre 2018 analizzò la complessa figura di Kashoggi, sospettato di essere un agente segreto arabo, prima di diventare paladino dei diritti umani come opinionista del Washington Post di Jeff Bezos, fondatore e padrone di Amazon ma anche figura esemplare di quel Deep State finanziario trasversale a Repubblicani e Democratici, supportato dalla massoneria internazionale e dalle intelligences militari.
«In verità, Khashoggi non ha mai avuto molto tempo per la democrazia pluralistica in stile occidentale. Negli anni ’70 è entrato a far parte dei Fratelli Musulmani, che esistono per liberare il mondo islamico dall’influenza occidentale. È stato un islamista politico fino alla fine, di recente ha elogiato i Fratelli Musulmani nel Washington Post» aggiunge Bolt forse scordando chi sostiene che proprio questa organizzazione politico-religiosa islamica sarebbe stata creata dalla massoneria occidentale per controllare più efficacemente il Medio Oriente attraverso gli storici alleati di Turchia e Qatar dove infatti i Fratelli Musulmani sono più influenti come evidenziato nel reportage Lobby Armi 4.
Herald Sun rammenta quindi il legame del giornalista assassinato con «Yasin Aktay – un ex parlamentare del Partito turco per la giustizia e lo sviluppo (AKP) – che Khashoggi aveva detto alla sua fidanzata di chiamare se non fosse uscito dal consolato. L’AKP è, in effetti, il ramo turco dei Fratelli Musulmani. Il suo amico più fidato, quindi, era un consigliere del presidente Erdogan, che sta rapidamente diventando noto come il più feroce persecutore di giornalisti sulla terra. Khashoggi non ha mai criticato in modo significativo Erdogan. Quindi non dovremmo vedere questo come l’assassinio di un riformatore liberale».
Parole pesanti soprattutto perché riferite ad un uomo ucciso e poi squartato per occultarne i resti. Ma che sono in perfetta sintonia con la teoria riportata in un dossier a puntate da Irina Tsukerman, un avvocato specializzato in diritti umani e sicurezza nazionale di New York, analista di geopolitica e sulla politica estera degli Stati Uniti su pubblicazioni americane e israeliane come Begin-Sadat Center for Strategic Studies (Besa).
«Sulla scia dell’uccisione di Qassem Soleimani da parte degli Stati Uniti, il ruolo significativo dell’Iran nell’11 settembre ha brevemente guadagnato terreno. Ciò che rimane completamente oscurato, tuttavia, sono gli islamisti sauditi che si nascondono in bella vista, che stanno scambiando le loro passate associazioni con l’intelligence occidentale per perseguire lo stesso programma che avevano prima dell’11 settembre. Gli islamisti sauditi hanno un interesse sia ideologico che finanziario nel vedere fallire la Vision 2030 di modernizzazione del regno»
Lo ha scritto l’avvocato sul website israeliano specializzato in intelligence militare e pertanto esponendosi al rischio di avere qualche legame con il Mossad, il famigerato controspionaggio di Tel Aviv, sospettato di aver avuto un’occulta regia tanto nell’addestramento del leader ISIS Al Baghdadi quanto negli attentati dell’11 settembre 2001 come più volte riportato da Veterans Today, portale d’informazione gestito dall’ex ufficiale CIA, Gordon Duff, e da Gospa News nella nostra precedente inchiesta. Proprio per questo dobbiamo prima verificare e analizzare con attenzione le correlazioni sulla strage del World Trade Center menzionate da Tsukerman che chiamando in causa l’Iran di confessione musulmana Sciita, nemico giurato dei Sunniti-Salafiti radicali come Fratelli Musulmani e Wahabiti Sauditi, odorano già di palese e gigantesco depistaggio. A conferma della faziosità del dossier di Tsukerman i suoi tre reportage non risultano più rintracciabili su Besa (ma abbiamo screenshot).
KHASHOGGI, AMICO DI BIN LADEN E SPIA A RIAD E LONDRA
Ma una frase è invece interessante perché si lega all’articolo australiano: «Molto di ciò che tutti pensano di sapere sugli sforzi di riforma del re Salman e del principe ereditario Muhammad bin Salman (MBS) è in realtà disinformazione prodotta da questi “dissidenti”. Includono ex membri dell’intelligence saudita e dei Fratelli Musulmani come Jamal Khashoggi, che voleva che l’Arabia Saudita diventasse di più, non di meno, come lo Stato islamico immaginato dall’amico di Khashoggi Osama bin Laden».
Chiudiamo questa parentesi israeliana e torniamo all’Herald Sun che prosegue l’analisi: «Khashoggi e i suoi compagni di viaggio credono nell’imposizione del dominio islamico impegnandosi nel processo democratico. Questo è importante perché, sebbene bin Salman abbia rifiutato il wahhabismo – per la gioia dell’Occidente – continua a vedere i Fratelli Musulmani come la principale minaccia che molto probabilmente farà deragliare la sua visione di una nuova Arabia Saudita. La maggior parte dei religiosi islamici in Arabia Saudita che sono stati imprigionati negli ultimi due anni – gli amici di Khashoggi – hanno legami storici con i Fratelli Musulmani. Khashoggi era quindi emerso come un leader de facto del ramo saudita. A causa del suo profilo e della sua influenza, era la più grande minaccia politica al governo di bin Salman al di fuori della famiglia reale».
«Aveva stretto amicizia con Osama bin Laden negli anni ’80 e ’90 in Afghanistan e Sudan mentre difendeva la sua jihad contro i sovietici nei dispacci. Allo stesso tempo, è stato assunto dai servizi segreti sauditi per cercare di persuadere bin Laden a fare la pace con la famiglia reale saudita. Il risultato? Khashoggi è stato l’unico saudita non reale che ha avuto il problema degli intimi rapporti dei reali con al Qaeda prima degli attacchi dell’11 settembre. Sarebbe stato cruciale se avesse intensificato la sua campagna per minare il principe ereditario».
«Come i reali sauditi, Khashoggi si è dissociato da bin Laden dopo l’11 settembre (che Khashoggi ed io abbiamo visto svolgersi insieme nell’ufficio di Arab News a Gedda). Ma poi ha collaborato come consigliere dell’ambasciatore saudita a Londra e poi a Washington, il principe Turki Al Faisal» aggiunge Andrew Bolt.
Il giornalista australiano ricorda infine che «quest’ultimo era stato capo dell’intelligence saudita dal 1977 fino a soli dieci giorni prima degli attacchi dell’11 settembre, quando inspiegabilmente si dimise. Ancora una volta, lavorando al fianco del principe Turki durante i periodi di ambasciatore di quest’ultimo, come aveva fatto mentre scriveva su bin Laden, Khashoggi si è mescolato con funzionari dell’intelligence britannica, statunitense e saudita. In breve, è stato in grado di acquisire informazioni privilegiate inestimabili».
ELIMINATO IL WHISTLEBLOWER SULL’11 SETTEMBRE
Seguendo la tesi del reporter australiano che dimostra di aver conosciuto bene il collega assassinato viene quindi da chiedersi cosa volesse farne di quelle informazioni privilegiate… Provimo a rispondere con un’analisi di psicologia umana prima ed una investigazioni giornalistiche poi. Da quanto risulta Jamal si era davvero innamorato della fidanzata turca, Hatice Cengiz, tanto da essere disposto a sfidare i pericoli di cui era ben consapevole pur di recarsi nel Consolato Saudita di Instnbul per ritirare i documenti necessari al matrimonio.
E pertanto evidente che per garantire a sé e soprattutto alla consorte un futuro sereno possa aver fatto prima qualche tentativo di mediare una sorta di “immunità” da Riad e poi abbia invece cercato di liberarsi la coscienza sull’11 settembre rendendo di dominio pubblico i segreti in suo possesso al fine da vanificare un eventuale attentato contro lui stesso. (continua a leggere…)