Da Porto X
Da quali parole iniziare?
Ognuno è chiamato a scovare le proprie. Posso dirvi però da quali
ho iniziato io nel mio processo di trasformazione di me e della realtà, o meglio dell’impatto della realtà su e dentro di me.
Le parole che ho iniziato personalmente ad eliminare non sono astruse o scurrili (a volte anche una bestemmia ha la sua sacralità), ma alcune di quelle particolarmente frequenti nel quotidiano, apparentemente innocue, ma tali da essere dotate più di altre di un forte potere di materializzazione. Queste parole, quando pronunciate con frequenza, girano al contrario: hanno un potere sì ma inverso, sono capaci cioè di modificare “verso il basso” la condizione esserica e pragmatica di chi le pronuncia. Come non ricordare l’attenzione che poneva tutto l’entourage di Harry Potter nell’evitare anche solo di pronunciare il nome di quel gran cattivone di Voldemort, preferendo utilizzare, per farvi riferimento, l’espressione “tu sai chi”…
Ma non le ho eliminate e basta. Le ho sostituite con altre il cui effetto poteva essere vivifico o quanto meno neutrale, comunque non nefasto. Sembra quasi un discorso scaramantico più che magico -sarà mia premura poi raccontarvi in un prossimo “Verba Volant” cosa intendo personalmente con la parola “magia”-, ma che cos’è la scaramanzia se non “la magia dei poveri”? Come diceva Eduardo De Filippo: “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male!”.
Aspettare
e tutti i sostantivi derivati o che hanno come prefisso asp-.
Al verbo aspettare ho sostituito il verbo attendere, che dà più il senso di tendere verso, nella sua accezione di prendersi cura, occuparsi di. Mi affascina Il senso così perfettamente reso dal suo participio presente: attendente, ossia colui che attende a qualcosa o a qualcuno, che gli conferisce -a differenza del verbo aspettare che sembra richiamare alla passiva attitudine del sottostare agli eventi- una certa forza attiva e dinamica nello stare, uno stare affinché si agisca, senza qualcosa o qualcuno che debba agire prima per noi.
Provare
nella sua accezione di tentare di fare qualcosa; uniche deroghe che mi concedo nell’uso di questo verbo e sue declinazioni sono per indicare la preparazione di uno spettacolo teatrale, le cosiddette prove, come anche le prove da superare, oppure in senso probatorio, cioè quelle necessarie a dimostrare la veridicità di un fatto, o nel senso di avvertire un sentimento. Lo scetticismo semantico collegato a questo verbo riguardava la riuscita dell’agire, che il verbo provare nega in partenza delegandolo aleatoriamente a fattori casuali o ultraterreni o astratti. Provare nega la necessità di un agire, e non mi riferisco necessariamente ad una azione fisica o materica, ma un agire in senso ampio e sottile anche, al di là della riuscita o meno: tutto questo per me è meglio espresso dal verbo Praticare: non provare a fare le cose ma le Pratico e basta. Quanta saggezza nella famosa frase del venerando maestro Yoda in Guerre Stellari: “Fare o non fare! Non c’è provare!”.
Sperare.
Un altro passivismo. Mi diverto a notare come, non a caso, nella lingua spagnola aspettare viene tradotto con la parola esperàr che tanto richiama l’italiano sperare. Un “speriamo…” pronunciato con sospirante rassegnazione non fa che trasmettere tutta l’inadeguatezza rispetto alle prove cui si è chiamati. Augurare ed augurarsi hanno invece in sé un potere vivifico, come un buon esito indotto attivamente nel semplice atto stesso di pronunciarlo; infatti difficile che capiti di ascoltare un “auguriamoci che…” ammantato di religiosa e mesta sudditanza agli eventi. Anche auspicare può funzionare meglio di sperare.
Ma ho eliminato poi dal mio frasario anche espressioni fatte come “ho paura che…”. Chiaro che non sono scevro dal sentimento della paura -mi capita, certo, di provarla-, ma ho compreso quanto importante sia non riverberarla foneticamente: ogni volta che si pronuncia di aver paura (anche nel senso di temere), questa s’ingrossa.
E ancora: “Mi annoio”, espressione particolarmente facile da non pronunciare per me dato che raramente mi capita di provare noia se non in presenza di determinate persone che sì, noiose ed ammorbanti (eh sì, ce ne sono eccome).
E ancora: “Ma come devo/come dobbiamo fare?”, quale dichiarazione di quel senso di vacua disperazione di fronte a problemi che tendono a ripetersi sempre con le stesse modalità, e che invece maschera solo l’incapacità di concentrazione nell’agire per scardinare l’inerzia che ci caratterizza.
Iniziai così da queste parole. E mi sembrò un buon inizio.
Chiesi poi all’altro, da quali parole potesse iniziare… e l’altro rispose: da
“Non ci riesco”, “devo…”, “colpa”, “ho bisogno”…
E Tu? Da quali parole puoi iniziare?
(Valentino Infuso)
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