Nicola Bizzi: Riflessioni sui limiti della democrazia

Il grande scrittore spagnolo Miguel Delibes, in uno dei suoi più celebri romanzi, Señora de rojo sobre fondo gris, sentenziò con una frase semplice ma efficace una profonda verità: «no sabes lo que tienes hasta que lo pierdes». Ed è proprio così: non sappiamo, e soprattutto non sappiamo apprezzare, quello che abbiamo finché non lo perdiamo, finché non ci viene portato via. E questo vale, soprattutto, per quelli che vengono considerati i due pilastri fondamentali della civiltà occidentale: la democrazia e la libertà: troppo spesso li diamo per scontati, non sappiamo apprezzarli, talvolta addirittura li disprezziamo, al punto da neanche accorgerci se tentano di toglierceli, di portarceli via.

Un grande uomo e libero muratore chiamato Benjamin Franklin pronunciò queste sacrosante parole: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di momentanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza». E in miei recenti articoli non ho potuto esimermi dal citare più volte questa sua giustissima affermazione, denunciando come – incredibilmente – la maggioranza degli Italiani, alla luce delle recenti vicende mediatico-sanitarie, sia stata disposta a calpestare le proprie libertà e i propri diritti democratici in cambio di una falsa e aleatoria “sicurezza”.

Negli ultimi mesi si è consumata una vicenda senza precedenti nella storia umana: in seguito ad un allarme sanitario partito dalla Cina, la maggior parte dei governi mondiali, e in modo particolare quelli europei, seguendo tutta una serie di linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (linee guida poi rivelatesi parte di un’agenda già da tempo pianificata), aggirando abilmente ogni legittimo dibattito parlamentare, ha applicato e imposto un prolungato “stato d’emergenza” che ha portato alla sospensione o al restringimento dei più elementari e inalienabili diritti dei cittadini, alla forzata chiusura delle attività commerciali e lavorative, alla deliberata distruzione dell’economia e della classe media e al prolungato confinamento domiciliare di centinaia di milioni di persone. E tutto questo è avvenuto con il medesimo, identico copione, in decine di nazioni, nelle quali la democrazia rappresentativa è stata cancellata con un tratto di penna e sostituita con una dittatura scientista e tecnocratica pronta a imporre con la forza e con la piena complicità dei media un aberrante pensiero unico, e a reprimere con la censura e l’intimidazione ogni forma di dissenso.

E l’Italia, in questo contesto, come ben sappiamo si è brillantemente distinta, dimostrando non solo la totale assenza di ogni autentica opposizione politica, ma arrivando a instaurare un inaudito clima mediatico di terrore orwelliano e di repressione poliziesca.

Tutto questo impone assolutamente una riflessione sul senso e significato di “democrazia”. Addentriamoci, quindi, su questo terreno impervio, che ci riserverà non poche sorprese.

La democrazia italiana, come scriveva il politologo Pietro Scoppola nel suo saggio La repubblica dei partiti, è stata spesso definita una democrazia “incompiuta” o una democrazia “difficile” (ma anche una democrazia “anomala” aggiungerei io), con formule che hanno sempre richiamato un qualche modello mai compiutamente realizzato. Ma il passaggio effettivo ad una “normalità” democratica continuava ad apparire, negli anni Novanta, quando Scoppola scriveva queste sue considerazioni, quanto mai problematico. Tanto che, ancora oggi – e forse oggi più che mai –, si tratta di un nodo irrisolto.

Zeffiro Ciuffoletti e Giuseppe Mammarella era giunti nel 1996, con il loro saggio Il declino: le origini storiche della crisi italiana, a simili conclusioni, scrivendo che, con la fine della guerra fredda sembravano crearsi le premesse perché il sistema politico si adeguasse ad un modello di democrazia compiuta che conciliasse rappresentatività ed efficienza, ma le attese e le speranze in tal senso erano destinate a durare poco.

Se vogliamo tentare di comprendere perché questo nodo sia rimasto ad oggi irrisolto e perché la crisi della democrazia italiana appaia sempre più senza sbocchi e senza soluzioni, occorre necessariamente focalizzare l’attenzione sul significato del concetto di democrazia ed avviare un’ampia riflessione sia sui più reconditi significati, sia sui molteplici errori commessi nella sua attuazione, fino ad arrivare a porsi dei legittimi quesiti. Fra questi, in primis, se il modello democratico rappresentativo “occidentale” non rappresenti che un’utopia e se sia ancora una via da perseguire ad ogni costo, l’unico modello a cui il consorzio umano debba anelare.

Già dai tempi di Erodoto, primo grande politologo della storia, gli uomini si interrogano incessantemente sull’efficacia delle diverse forme di governo possibili. Il famoso Logos Tripolitikos, elaborato dal grande storico greco, distingue tre modelli principali di ordinamento politico: la Monarchia, fondata sul potere assoluto del sovrano; la Oligarchia, che contempla il governo di pochi su molti; e infine la Democrazia, ovvero (letteralmente) il “potere del popolo”. Naturalmente gli antichi utilizzavano il termine “democrazia” in una accezione molto differente rispetto all’uso che se fa ai nostri giorni. Ma lo schema proposto da Erodoto, come sottolineava Francesco Toscano nel 2013 in un articolo del suo blog Il Moralista, al netto delle tante sottigliezze e precisazioni interpretative accavallatesi nel corso dei secoli, resta ancora validissimo.

Lo storico Polibio, vissuto nel II° secolo a.C., ritenne la forma di governo in vigore nella Roma repubblicana dei suoi tempi come la più avanzata e perfetta possibile, di gran lunga superiore alla “democrazia” esercitata dagli ateniesi. La costituzione romana repubblicana è stata infatti definita dallo storico greco come il migliore e più illustre esempio di costituzione mista, grazie all’armonia ed all’equilibrio intercorrenti fra i tre organi depositari del potere, ovvero il Senato, i Consoli ed i Comizi. Nel VI° Libro delle Storie Polibio sostiene quanto segue: «(…) Tre erano le forze che avevano potere nella Repubblica; e così attraverso queste ogni affare particolare era regolato e amministrato con equità e scrupolosità, tanto che nessuno, neppure gli stessi Romani, avrebbe potuto dire se quello era un regime aristocratico, democratico o piuttosto monarchico. Ed è naturale che fosse così. Quando, infatti, poniamo attenzione al potere dei Consoli, ci sembra che quel governo fosse monarchico e regio. Se badiamo al Senato, ecco che ci sembra aristocratico. E poi, invece, se osserviamo il potere del popolo, ci appare chiaramente democratico».

Dopo aver preso in esame il ruolo e le prerogative dei Consoli e del Senato nella gestione della cosa pubblica, Polibio si sofferma a lungo sul ruolo fondamentale del popolo, attraverso l’istituzione dei Tribuni della Plebe, nell’esercizio del potere sulla Repubblica: «Dopo quanto esposto ci si domanda, logicamente, quale sia la parte di governo di pertinenza del popolo, dal momento che il Senato ha il controllo degli affari particolari di cui abbiamo parlato e, cosa importantissima, stabilisce ogni entrata e ogni spesa, e i Consoli hanno il comando supremo degli eserciti in guerra e potere assoluto durante le campagne militari. Eppure resta al popolo una parte molto importante: esso, infatti, è l’unico arbitro degli onori e delle pene. Esercita cioè il potere sul quale si fondano le dinastie, le repubbliche e tutta quanta la vita consociata. I popoli che non conoscono la differenza fra premi e castighi o che, conoscendola, la praticano male, non potranno mai amministrare con senno i loro affari. Come potrebbero farlo, infatti, tenendo nello stesso conto buoni e cattivi?

Spetta poi al popolo l’assegnazione delle pene pecuniarie notevoli, e ciò ha particolare importanza se si agisce contro cittadini investiti di alte magistrature. Esso solo poi può stabilire la pena capitale. A proposito di questa, vige presso i Romani una consuetudine lodevole degna di essere ricordata: per i rei di delitto capitale, quando la condanna è certa, vi è l’uso vigente della facoltà di allontanarsi in volontario esilio, purché non abbiano votato tutte le tribù che debbono sanzionare il giudizio. I colpevoli posso quindi mettersi al sicuro a Napoli, a Preneste, a Tivoli, e in altre città che abbiano con i Romani questa convenzione.

Il popolo assegna poi le magistrature a chi ne è degno, e questo è il miglior premio della virtù. Ha anche pieni poteri sull’esame delle leggi e, quel che più importa, esso decide in merito alla pace e alla guerra e conferma, ratifica o rigetta le alleanze, gli accordi e i trattati. Viene quindi naturale affermare che nello Stato romano il popolo ha una grandissima parte e che la costituzione è democratica».

Sempre nel VI° Libro delle Storie, Polibio affronta il tema costituzionale delle sei forme di governo possibili: tre cosiddette buone (monarchia, aristocrazia e democrazia) e tre derivanti dalla degenerazione delle prime (tirannide, oligarchia ed oclocrazia). L’andamento storico di queste forme rappresenta la teoria dell’anaciclosi, la quale è strettamente collegata all’idea di costituzione mista, settima forma possibile di governo nonché sintesi degli elementi positivi delle altre forme.

Secondo Polibio, quando il demos si impadronisce del potere l’ordinamento che ne deriva assume, sì, il nome di libertà e di democrazia, ma si trasforma inesorabilmente nel peggiore dei regimi: l’Oclocrazia (dal Greco όχλοκρατία: όχλος, όclos, “moltitudine”, “massa”, e κρατία, crazìa, “potere”) e il disordine politico che consegue all’instaurazione di un sistema oclocratico ha come unico sbocco il ritorno alla monarchia o comunque a una forma dittatoriale. In questa ottica, il popolo ateniese era paragonabile, per Polibio, ad una nave senza nocchiero.

La prima definizione del termine Oclocrazia la si deve però a Platone, che nella sua Repubblica la considera una forma di degenerazione della democrazia. Platone individua cinque possibili diversi ordinamenti politici che, in ordine consequenziale e discendente, sono tradizionalmente: Aristocrazia, Timocrazia, Oligarchia, Democrazia e Oclocrazia. Quest’ultima può portare alla tirannia in quanto inevitabile conseguenza dei comportamenti demagogici legati all’acquisizione del consenso. Successivamente il termine è stato ripreso nella analisi politica ed etica di Aristotele, che affronta il tema della politeia, discutendo anch’egli di quelle che per lui erano le tre forme politiche dello Stato (Monarchia, Aristocrazia e Timocrazia) e delle loro forme degenerate (Tirannide, Oligarchia e Democrazia-Oclocrazia).

La cosiddetta democrazia moderna, figlia delle rivoluzioni ispirate dalla cultura illuministica, si fonda sul concetto di rappresentanza. Il popolo, detentore nominalmente della sovranità, delega l’effettivo esercizio del potere a dei rappresentanti scelti (più o meno liberamente) attraverso i meccanismi del suffragio e del sistema elettorale. Questi rappresentanti, una volta eletti e insediatisi nell’ambito del sistema parlamentare dei rispettivi paesi e investiti di un preciso vincolo-mandato, non sono tenuti a difendere all’interno delle assemblee legislative soltanto gli interessi dei gruppi che ne hanno materialmente permesso e consentito l’ascesa (non sono cioè meri portavoce delle istanze corporative loro affidate sul modello in voga, ad esempio, in epoca feudale), ma, al contrario, ognuno è tenuto a perseguire correttamente gli interessi dell’interna nazione, di agire sulla base del perseguimento del bene comune e dell’interesse superiore del popolo e della collettività. Anche se la rappresentanza, considerata della democrazia moderna uno dei cardini, con il mutare delle condizioni sovrastrutturali degli stati verificatasi in particolare negli ultimi due decenni (dapprima con il primato raggiunto dai servizi sull’industria e, in seguito, con la nascita di società cosiddette post-industriali) ha spesso dimostrato i suoi limiti, dimostrandosi sempre meno legata ad appartenenze stabili (di tipo ideologico o di classe) e sempre più condizionata da motivazioni contingenti e particolaristiche. Osserva a tal proposito Pietro Scoppola che la tendenza della democrazia ad adagiarsi sui particolarismi, già operante nelle società industriali, si accentua nelle società che, in mancanza di concetti più precisi, chiamiamo post-industriali, e che la democrazia (intesa come la democrazia rappresentativa di modello occidentale) tende ovunque a privilegiare interessi particolari, interpreta spesso paure e fobie collettive e stenta invece ad esprimere interessi generali e valori universali.

Nell’area del cosiddetto Occidente, ovvero nel Nord America e nell’Europa Occidentale rientrante alla fine del secondo conflitto mondiale nell’orbita statunitense, in seguito alla sconfitta militare dei totalitarismi dell’Asse e all’avvento dello status di Guerra Fredda con il blocco dei paesi oltre cortina, il modello democratico “occidentale” è stato indubbiamente oggetto di una vera e propria mitizzazione. Mitizzazione che talvolta è sfociata nella idolatria, nel dogmatismo. Per reazione verso le forme di governo assolutistiche e totalitarie dell’Italia fascista e della Germania nazional-socialista, sconfitte con le armi dagli Alleati, e verso il modello comunista sovietico, si è arrivati all’esaltazione del modello democratico “occidentale”, quello della democrazia rappresentativa, che veniva indicato come l’unica forma di governo o l’unico ordinamento legittimamente perseguibile dai popoli della Terra. Se ad Est non veniva tollerato il dissenso politico e venivano represse le idee non in sintonia con l’attuazione dogmatica della dittatura del proletariato e con l’edificazione del sogno comunista, in Occidente abbiamo assistito ad un’altra altrettanto pesante cappa di repressione del dissenso. Con l’innalzamento alla stregua di valore universale del mito della democrazia rappresentativa, si è portata progressivamente l’opinione pubblica a vedere appunto in esso l’unica ed esclusiva via perseguibile. Quello che in alcuni miei saggi ho denunciato e chiamato senza esitazione il “dogma democratico” ha portato ad emarginare socialmente e a bollare come “antidemocratico”, “fascista”, “sovversivo”, o comunque “nemico del sistema” chiunque osasse mettere in discussione tale “dogma”, magari anche attraverso critiche costruttive o scrupolose analisi dei suoi difetti e dei suoi limiti oggettivi. Questo perché – e si tratta di una situazione oggi persiste più che mai – chi muove critiche verso il “dogma democratico” infrange nel comune sentire un altro osceno dogma, quello più recente ma non meno pernicioso del “politically correct”. E, nel migliore dei casi, viene definito un “complottista”.

Il protrarsi per decenni di questa situazione da me descritta (situazione del resto alquanto paradossale, perché in un contesto di reale democrazia non dovrebbero vigere dei dogmi) ha portato ad una drammatica carenza di dibattito intorno allo stesso concetto di Democrazia, e all’assenza di disquisizioni intellettuali sui suoi obiettivi, sulle sue forme di attuazione e, infine, dei suoi limiti.

È stata la caduta del Muro di Berlino nel 1989, accompagnata dalla crisi e dalla caduta del sistema comunista nell’Europa dell’Est, con tutte le sue inevitabili ripercussioni politiche ed ideologiche sui paesi dell’Europa Occidentale, a riaprire la via del dibattito sul concetto e sul significato di Democrazia. O, quantomeno, dopo lo spartiacque del 1989, inOccidente abbiamo ricominciato a porci delle domande, dei legittimi interrogativi.

Molti intellettuali hanno subitaneamente pensato e descritto la fine del Comunismo ad Est come la definitiva vittoria del modello “occidentale”, auspicando nell’intera Europa Orientale una pronta restaurazione di valori, di modi di vivere e di sistemi politici fondati sulla più autentica “democrazia rappresentativa”, rispetto ai quali sembrava ai loro occhi che non vi fossero dubbi, incertezze e problemi aperti. Ma il modo in cui questi valori si esprimono e si organizzano nella vita associata è tutt’altro che pacifico e scontato.

Si è addirittura gridato, alla luce della celebrata fine del contrasto fra Est e Ovest, ad una presunta “fine della Storia”, sulla scia delle elucubrazioni del filosofo nippo-americano Francis Fukuyama, dimostratesi in seguito inconsistenti alla luce degli sviluppi inaspettati della situazione mondiale degli ultimi anni. Fukuyama, infatti, come del resto molti altri filosofi lasciatisi trascinare dall’entusiasmo per i festeggiamenti della caduta del Muro di Berlino, non aveva considerato nella sua analisi un semplice fatto ovvio: quando, se due piatti di una bilancia si pongono in condizione di equilibrio, uno dei due repentinamente viene rovesciato, è impensabile che anche l’altro piatto non ne risenta in modo traumatico.

Il sottoscritto ha trascorso buona parte degli anni ’90, per questioni di lavoro, in diversi paesi dell’Europa dell’Est e nella Russia post-sovietica. Particolarmente significative per me sono state una lunga permanenza in Bulgaria, il paese che, fino a pochissimo tempo prima del mio soggiorno, rappresentava il più chiuso fra quelli oltrecortina e quello più fedele a Mosca, e un quasi altrettanto lungo periodo trascorso fra Serbia e Macedonia. Ho avuto quindi modo di vivere in prima persona, fianco a fianco con la popolazione, le trasformazioni politiche, economiche e sociali di queste aree geografiche reduci da quasi un cinquantennio di “socialismo reale” e di apprendere, attraverso i mezzi di informazione, le televisioni e i giornali locali, come questi popoli vedevano e vivevano certe trasformazioni. Posso dire con cognizione di causa, in base alla mia esperienza, di non aver assistito ad alcun trionfalismo per il crollo dei vecchi sistemi, di non aver mai sentito qualcuno, dal semplice cittadino fino al politico o al rappresentante delle istituzioni, dirsi pronto ad abbracciare “a scatola chiusa” il modello democratico occidentale. Modello verso il quale, anzi, notavo in ogni discussione e ogni volta che se ne presentava l’occasione, una estrema diffidenza se non un rigetto totale. Questo perché, agli occhi dei cittadini dei paesi dell’Est, il modello democratico occidentale, prima ancora di esprimere concetti quali la libertà di pensiero e di espressione e la salvaguardia di valori morali come quello della dignità dell’uomo o dell’autodeterminazione dei popoli, significava corruzione, degrado morale e dei costumi e paura generalizzata per la perdita di posti di lavoro, per l’aumento sconsiderato dei prezzi e per la perdita di potere d’acquisto dei loro salari.

Ma l’elemento che maggiormente è stato ignorato, almeno nei primi anni successivi al 1989, dalla maggior parte dei giornalisti, degli opinionisti e degli analisti occidentali, è stato il profondo e radicato senso di identità nazionale che caratterizzava in genere i popoli dell’Est Europa, proprio quell’elemento che impediva loro di abbracciare in toto e senza esitazioni il modello di un Occidente che sentivano distante non tanto più ormai per ragioni ideologiche, ma per ben più complesse ragioni antropologiche, sociologiche e culturali. É stato questo errore di fondo a non far capire, alle nostre “teste pensanti”, le ragioni che stavano dietro al riaccendersi dei nazionalismi e all’esplosione di violenti conflitti, come ad esempio la guerra civile jugoslava.

Oltreoceano, invece, alcuni filosofi americani dimostravano di aver colto nel segno, elaborando la cosiddetta “Teoria del Frigorifero”, secondo la quale l’imposizione del sistema comunista in Russia e nei paesi dell’Europa Orientale, ben lungi dall’aver risolto i nodi rappresentati dalle identità nazionali dei popoli e dalle secolari conflittualità interetniche, li aveva semplicemente “congelati”. Crollando il sistema comunista, secondo questa teoria, tutti i vecchi nodi irrisolti (in Russia prima del 1917 e nei paesi del blocco ex sovietico prima del 1945) sono prontamente tornati al pettine, ritornando sulla scena in tutta la loro attualità e – talvolta – drammaticità.

Il trionfalismo che in Occidente ha caratterizzato molti commenti sugli eventi eccezionali del 1989, osserva sempre Scoppola, è apparso viziato da un errore di prospettiva storica: si è parlato e scritto del Comunismo che tramonta quasi come di un “alieno” giunto casualmente sul nostro pianeta e finalmente ripartito verso mondi sconosciuti, dimenticando che esso è figlio sul piano ideologico della cultura dell’Occidente, che si è affermato e consolidato all’Est come alternativa allo sviluppo del Capitalismo, che ha agito come partito di opposizione all’Ovest negli spazi aperti dalle contraddizioni della società capitalistica, una società che solo pochi decenni innanzi aveva fatto nascere dal suo seno e alimentato Fascismo e Nazismo.

Dicevamo che la caduta del Muro di Berlino ha avuto quindi anche il merito di aver riaperto in Occidente il dibattito sulla democrazia, dibattito che, come abbiamo visto, era stato forzatamente congelato da una serie di molteplici fattori. Come, del resto, era stata “congelata” l’impalcatura stessa realizzata per sostenere il modello stesso di democrazia occidentale. Modello che, spogliato da questa ingombrante impalcatura retorica e “dogmatica”, comincia a mostrare adesso molte crepe del tutto inaspettate, portando sotto gli occhi di tutti un impressionante dato di fatto: la crisi profonda e generalizzata della democrazia.

Se vogliamo tentare di comprendere la crisi, apparentemente irreversibile e senza soluzioni, in cui versa la democrazia italiana, dobbiamo fare una necessaria riflessione, partendo dal presupposto che nel nostro caso si tratti, prima ancora di una crisi del “modello democratico”, di una crisi della sua evoluzione, del suo sviluppo. Nel caso complesso della crisi dello sviluppo della democrazia, osservava sempre Pietro Scoppola, «il caso italiano ha una particolare gravità perché qui la democrazia sembra incapace di auto correggersi e di entrare in sintonia con le trasformazioni della società».

A partire dal 1989 si sono posti ovunque, nell’ambito dell’Occidente, seri problemi di ristrutturazione di ridefinizione del nostro modello di democrazia. Senza voler mettere in discussione l’ideale stesso della democrazia, si rende quantomeno necessario mettere in discussione i suoi limiti, le sue carenze, in sostanza il suo concreto modo di essere. Non c’è stata solo una democrazia da restaurare dove vigeva il totalitarismo comunista, ma c’è una democrazia ancora e sempre da definire e da costruire, ovunque. Perché la verità semplice e severa è che nel momento stesso in cui la democrazia trionfa come ideale, essa appare, nei paesi in cui sembra realizzata, in una difficile crisi di sviluppo.

Si tratta innanzitutto, a mio avviso, di un problema di definizione. Come osservava sempre Scoppola, «questi accenni al trionfo dell’ideale democratico e, al tempo stesso, alle difficoltà della sua attuazione ci riconducono ad una contraddizione che è implicita nella idea stessa di democrazia: essa è necessariamente ideale, utopia, mito, ma è altrettanto necessariamente realizzazione mai compiuta di quell’ideale, di quella utopia. La contraddizione nasce dalla definizione stessa di democrazia che è, insieme e necessariamente, prescrittiva e descrittiva, con un costante e in componibile conflitto fra prescrizione e descrizione».

Indubbiamente non risulta facile definire la democrazia, o quantomeno l’idea che in Occidente ci siamo fatti di questa vetusta e in fondo mai del tutto risolta e applicata forma di ordinamento sociale. Limitandoci ai suoi aspetti formali, se la si definisce per quello che, in teoria, dovrebbe essere, si va a definire un qualcosa che non c’è (un’utopia, appunto, come osserva Scoppola); se la si definisce per quello che è realmente (nel senso di come è stata applicata in luoghi e tempi diversi) si rischia di perdere ogni idea unitaria di essa.

Già nel 1912, nel contesto di quello Stato liberale in cui Antonio De Viti De Marco anticipava l’idea di una “democrazia incompiuta”, Benedetto Croce, dalle pagine della salveminiana Unità, si poneva polemicamente la domanda: «È necessaria la democrazia?». E il grande poeta e drammaturgo statunitense Thomas Stearns Eliot scriveva nel 1939, alla vigilia della IIª Guerra Mondiale: «Quando un termine ha conseguito una santificazione universale come accade oggi alla democrazia, comincio a chiedermi se, volendo significare troppe cose, non significhi più nulla».

Può esserci sicuramente in aiuto, a questo punto, prendere in esame la teoria dei “Due Terzi” elaborata da Peter Glotz, ideologo della socialdemocrazia tedesca, in base alla quale la democrazia sarebbe nata dallo sforzo di unire e di dare coscienza ai molti, poveri e deboli, perché potessero far valere i loro diritti contro i pochi, ricchi e potenti. In sintesi, secondo Glotz, la democrazia nasce e si sviluppa quando i due terzi della società sono poveri e un terzo è ricco. Ma quando, in conseguenza della crescita economica di una società e del miglioramento delle condizioni sociali, la situazione di fatto si ribalta e due terzi della popolazione sono formati da ricchi o abbienti e un terzo soltanto ha un limitato accesso ai consumi o non lo ha affatto, come può allora funzionare questa democrazia?

In maniera molto più realistica, lo scrittore tedesco Joachim Fest si è posto il problema di cosa accade alla democrazia quando il prodotto sociale lordo smette di crescere, di cosa accade quando certi benefici, divenuti e ritenuti ormai diritti acquisiti, devono essere revocati. E, altro fattore di grande importanza, si è chiesto cosa accade quando il sostegno esterno rappresentato dalla minaccia di un nemico non rafforza più la volontà di sopravvivenza.

Il punto è che tutte e tre queste circostanze si sono verificate o si stanno verificando: società dei due terzi, decrescita economica (e, di conseguenza, del prodotto lordo) e venir meno del “nemico esterno”. Anche se, come i fatti degli ultimi anni parlano chiaro, al venuto meno “nemico esterno” comunista è stato prontamente sostituito il “nemico esterno” musulmano (ed oggi il “nemico esterno invisibile”, il “virus”), l’inversione dei fattori non cambia il risultato. Il fragile compromesso fra capitalismo e democrazia che aveva dato origine al Welfare State appare ovunque in crisi, minato nelle sue fondamenta e destinato a spezzarsi sotto i colpi di una crisi economica globale dalla quale non vi sono concrete prospettive di uscita. Le garanzie sociali in favore degli strati più deboli della società, fino a poco tempo fa considerate dei diritti acquisiti (oltre che una indiscussa conquista sociale) sono rimesse in discussione sotto le spinte della globalizzazione dell’economia e a causa dei terremoti sociali scatenati dal mondo della finanza. Anche nei paesi più ricchi si va estendendo il fenomeno delle nuove povertà, direttamente proporzionale a quello del dilagare della disoccupazione.

Il rapporto interno ai paesi industrializzati fra i due terzi e il terzo restante è ormai rovesciato sul piano mondiale: meno di un terzo del mondo è ricco e detiene il controllo delle principali risorse, mentre oltre due terzi del mondo versano nell’indigenza o comunque nel sottosviluppo. E, in quel terzo del mondo sviluppato, la concentrazione delle ricchezze e delle risorse è a sua volta in buona parte nelle mani di un ristretto 1% della popolazione.

La dirompente crescita economica della Cina e il tasso di crescita di alcuni paesi africani, asiatici e sud-americani, proprio di questi ultimi anni, non ha colmato questo divario, che si fa anzi sempre più ampio. Quale sarà quindi, come si chiedeva Pietro Scoppola, il rapporto fra queste realtà se la democrazia, là dove esiste, si piega sempre più alla logica della conservazione del privilegio?

Risulta difficile oggi immaginare come la democrazia possa coerentemente ed efficacemente rispondere alla sfida che viene posta cosiddetto “Nord” del mondo da un “Sud” sottosviluppato e affamato. È difficile immaginare– sottolineava Scoppola – come si possa, nell’affrontare questa sfida, correggere un modello di sviluppo, quello che ha guidato la crescita dell’Occidente, che non può essere esteso a tutto il mondo senza effetti devastanti sugli equilibri già precari del sistema ecologico planetario. Di fronte a questi problemi, scrive sempre Scoppola, appare singolare la tesi di una “fine della storia” legata alla fine del contrasto fra Est e Ovest.

Risulta evidente, alla luce di queste considerazioni, come, da parte di certe elite di potere sovranazionali che ben conosciamo, lo scatenamento su scala globale dell’esperimento sociale del Covid 19, sia stato un tentativo estremo di arginare e incanalare una crisi economica inarrestabile e di portata storica, di procedere al prosciugamento e al controllo delle ultime risorse disponibili e, con il presto della falsa pandemia, di attentare agli ultimi residui di democrazie rappresentative, trasformandole compiutamente in oligarchie totalitarie e repressive.

La facilità e la disinvoltura con cui la maggior parte dei governi “democratici” occidentali (con la piena complicità delle ”opposizioni” parlamentari) si è piegata a questo folle esperimento sociale, non esitando a calpestare e a stracciare le carte costituzionali e a sospendere le libertà e i diritti civili dei cittadini non fa però che confermarci una dura verità, una verità forse per qualcuno difficile da digerire o accettare: la “democrazia” che in questi ultimi mesi ci hanno sottratto si era già da tempo trasformata, senza che molti se ne accorgessero, in una bieca oligarchia abilmente camuffata da democrazia rappresentativa. Le hanno semplicemente tolto la maschera. E l’hanno messa a voi.