UNIVERSAL MASKING, MITO SCIENTIFICO SENZA EVIDENZA?

“Perchè non ci sono evidenze scientifiche a favore di un uso inappropriato delle mascherine”

Premessa generale

Bisogna ricordare che su mascherine e respiratori, di diversa classificazione, la prassi comune e la giustificazione adottata, condivisa generalmente dalla comunità scientifica, è che esse non sono mezzi di contrasto delle epidemie, ed infatti l’uso “universale” di questi dispositivi non è una misura ortodossa e in sé è piuttosto anomala. Nel contesto infatti della prevenzione di malattie infettive l’impiego di tali mezzi è generalmente giustificato in specifiche e motivate circostanze. L’uso per cui nascono, ad esempio, le mascherine chirurgiche è quello di evitare che i chirurghi parlando possano con le goccioline di saliva inquinare il campo operatorio. L’odontoiatra se ne serve per proteggersi da eventuali goccioline di sangue e/o saliva da parte del paziente. Altro uso è per le persone immunodepresse che in questo modo vedrebbero una minima protezione, ma per lo più da agenti batterici, essendo la capacità filtrante delle stesse, come vedremo, inadeguata agli agenti virali. Al massimo si può ipotizzare che sia corretto, da parte di persone malate, con l’infezione in fase attiva e in grado di contagiare, questo uso al fine di ridurre il rischio di diffusione del patogeno. Tuttavia si tratta di casi particolari, limitati a particolari circostanze o ambienti. Ad esempio, in questo senso, non vi sarebbe ragione che un soggetto negativizzato al patogeno in questione, la indossasse successivamente. Quanto al fatto che la popolazione generale debba indossare mascherine e/o dispositivi di protezione individuale era addirittura escluso dallo stesso Ministero della Salute all’inizio dell’“emergenza covid”, come dimostrano le comunicazioni rilasciate dal Ministero1secondo quanto suggerito dalla stessa OMS. La prassi generale è che l’uso di questi dispositivi, per strada, nei luoghi di lavoro generalisti (cioè ad esclusione di luoghi di lavoro sanitario, assistenza ai malati, o ad alto rischio), etc. non sia né necessaria né abbia senso. Questo del resto è attestato dal fatto che tale uso non è normalmente richiesto, né è stato solitamente applicato durante le influenze pandemiche come ad esempio, l’influenza “asiatica” (1957) “di Hong Kong” (1968), l’influenza “aviaria” H5N1 (2005) “suina” di H1N1 (2009). Il ricorso ad un universal masking per la popolazione generale non è mai stato fatto. Peraltro al riguardo, uno dei documenti ufficiali più aggiornati (giugno 2020) sull’uso delle mascherine nel contesto dell’epidemia Covid-19 da parte dell’OMS (Advice on the use of masks in the context of COVID-19), afferma esplicitamente che:

Al presente, non ci sono prove dirette (da studi su COVID19 e su persone sane nella comunità) sull’efficacia dell’uso universale delle mascherine da parte di persone sane in comunità per prevenire l’infezione da virus respiratori, compreso COVID-19.2

Di seguito (pagg. 6-7) il documento darebbe indicazioni ai governi per incoraggiare l’uso delle mascherine (sebbene manchino evidenze generali a favore), in contesti specifici. Tali casi specifici riguardano condizioni di: 1) esposizione (lavoratori particolarmente esposti, o dove vi sono alti rischi epidemiologici), 2) vulnerabilità (persone particolarmente anziane, immunodepresse, o con malattie polmonari croniche etc.). Di nuovo dunque nessuna indicazione all’uso indiscriminato e universale di dispositivi come mascherine o respiratori.

Anche la generale “preoccupazione” utilizzata per mobilitare in senso allarmistico, oltre ogni ragionevole misura, quella basata sulla diffusa (ma non dimostrata opinione) che i soggetti asintomatici (ma positivi) potessero essere infettivi, dovrebbe ormai essere definitivamente screditata dopo che anche Anthony Fauci ha dovuto ammettere (28 agosto) che questa ipotesi è in contrasto con tutto quanto sappiamo in materia di epidemiologia3.

Il caso di specie

Concentriamoci per un attimo sulla situazione specifica cioè la patologia attualmente in esame. Circa le modalità di trasmissione del patogeno dichiarato SARS-CoV-2 non vi è nessuna certezza sebbene vi siano modelli proposti di diffusione, gli stessi solitamente ipotizzati per i virus simil-influenzali, anche qui senza certezze assolute. Allo stato attuale dell’arte, infatti, non vi sono prove dirimenti che dimostrino se il virus si trasmetta solo attraverso le goccioline di maggiori dimensioni (le goccioline di Flügge o droplets), cioè superiori a 5 μm, oppure anche attraverso aerosol, il che renderebbe già inutili a priori le mascherine chirurgiche e i respiratori fino a FFP1, cioè la gran parte dei dispositivi attualmente usati, compresi quelli fatti produrre in convenzione dal governo e venduti a prezzo calmierato. Al momento infatti non vi è nessuna conferma che la trasmissione non avvenga anche per aersol, e non vi sono prove dirimenti in tal senso accettate dalla comunità scientifica4. Uno dei pochi studi che supporta la trasmissione aerea (senza però discriminare fra aerosol e droplets) è stato peraltro basato su evidenze riscontrate su ospedali e case di cura, luoghi che notoriamente producono ogni tipo di infezione a causa delle condizioni igieniche particolari5. Se comunque ci si richiama al modello di altri virus respiratori simil-influenzali, anche l’aerosol dovrebbe essere ritenuto uno dei mezzi di possibile diffusione. Altri elementi su cui non ci sono studi sperimentali, a partire da isolati del virus, riguardano la carica virale necessaria per dare patogenesi, oppure il tempo dopo il quale il virus risulti inattivato in condizioni ambientali (temperatura, illuminazione, ossigenazione), sia nell’aria che sulle superfici. In mancanza di questi dati attribuire solo ai droplets la funzione di unica via di trasmissione non è corretto. In realtà anche la trasmissione o infezione per contatto diretto, cioè per contatto superfici/mani/mucosa buccale, non è esclusa. Si tratta però al momento di tutte ipotesi non dimostrate, e finora sono state tutte oggetto di “infodemia” ma non di studi tecnici adeguati ad un virus che tanto allarme avrebbe destato. Non si dispone neppure di informazioni dirette, basate su studi riproducibili, che indichino quale sia la carica virale necessaria a sviluppare la malattia, né, soprattutto, quanto dovrebbe essere il tempo di esposizione fra due soggetti, di cui uno in grado di infettare, e uno suscettibile, affinché quest’ultimo risulti contagiato e sviluppi sintomi della malattia. Ad esempio il fatto che non sia mai stato misurato o studiato per quanto tempo il virus resti attivo e stabile nell’aria, nelle condizioni ambientali, non permette di capire se e quanto la richiesta di uso di dispositivi come le mascherine abbia davvero un senso, al di fuori degli ambienti ospedalieri. Al momento pertanto non esiste una robusta evidenza a favore di uno specifico modello di trasmissione, e le nostre risposte sono state basate su considerazioni piuttosto congetturali. Questo significa anche che il sacrificio richiesto per adeguarsi a regole e comportamenti, anche se basati su considerazioni prudenziali, potrebbero essere eccessivi, non necessari, oppure insufficienti.

Descrizione e analisi tecnica dei dispositivi

Attualmente i dispositivi ammessi sono: 1) mascherine artigianali, o “lavabili”, ammesse dai vari DPCM, autoprodotte o confezionate da aziende di sartoria, 2) mascherine chirurgiche (che peraltro sono le più utilizzate) 3) i respiratori classificati come FFP1, FFP2, FFP3, secondo la classificazione europea, o N95, N100, etc., secondo quella statunitense. Le prime, essendo composte di stoffa comune, hanno valore meramente psicologico e nessuna capacità filtrante di rilievo, pur essendo state ammesse e pur assorbendo una fetta importante del mercato delle mascherine, perché sono quelle personalizzabili. In realtà in questa categoria rientrano tutte quelle “griffate” o quelle usate in molti contesti lavorativi, o aziendali, che le hanno commissionate con logo per i propri dipendenti. Torneremo dopo su queste per l’evidenza degli inconvenienti alla salute che possono comportare.

Le mascherine chirurgiche sono composte di tre strati, uno a contatto con la pelle, l’altro esterno con funzione di impermeabilizzante e uno strato intermedio filtrante, composto di microfibre in propilene “melt blown”, la cui capacità di filtrazione è dovuto sia all’effetto meccanico che elettrostatico. Le mascherine chirurgiche standard hanno in questo senso una maglia con pori che in media si aggirano sui 12 µm6. Questi dispositivi sono di solito testati su parametri come l’efficienza di filtrazione del particolato (PFE) e l’efficienza di filtrazione batterica (BFE)7. È esclusa ovviamente la filtrazione di patogeni più piccoli dei batteri (virus). Questo tipo di mascherine sono quelle più diffuse e sono quelle per le quali il Governo ha firmato accordi di fornitura e quindi meritano un particolare focus critico. La motivazione per la quale verrebbero imposte sarebbe di tipo “altruistico”: effettivamente la loro capacità filtrante in entrata è molto bassa, maggiore quella in uscita, secondo quanto viene riportato, pertanto questa indicazione sarebbe legata non alla protezione individuale ma alla riduzione di diffusione del contagio da parte di un soggetto portatore. Ora, l’uso generalizzato di tali mascherine, addirittura obbligatorie e in ogni circostanza, non può che basarsi sul postulato che ogni individuo sano sia potenzialmente infettivo e come tale vada trattato, cioè come un presunto diffusore; ciò non può che essere inammissibile sia giuridicamente, che socialmente, che scientificamente. Abbiamo anche ricordato che, infine, la contagiosità dei soggetti “asintomatici” (che ricordiamo sono sani), o presintomatici, è stata infine ammessa come poco probabile, e in contrasto con i principi condivisi dell’infettivologia. Quale efficacia possono avere queste mascherine chirurgiche per ora solo considerandolo sotto il profilo tecnico? Si sostiene che la loro utilità sarebbe quella di filtrare i droplets. Ma questa capacità filtrante è limitata e condizionata. Anzitutto le maglie più piccole (circa 12 µm) potrebbero limitare solo parzialmente i droplets più piccoli, quelli nel range fra 5 e 10-12 µm. Quanto diciamo è confermato da uno studio comparativo di vari tipi di DPI, recentemente pubblicato su Bioactive Materials:

In consequence, the surgical masks can limit the release of the droplets larger than 5 μm. Therefore they are not sufficient for limiting the emission of the small droplets.8

Inoltre rimane aperta la possibilità di fuoriuscita dalle pieghe laterali e superiori, al di sopra del naso, perché questo tipo di mascherine non aderisce al viso. Pertanto l’effetto di blocco sarebbe certamente parziale. A fortiori non offrono nessuna capacità filtrante o di blocco per gli aerosol, cioè per le dispersioni di saliva inferiori a 5 µm. Abbiamo già spiegato che è tuttora controverso se l’aerosol possa essere o meno un veicolo di contagio. Pertanto queste mascherine potrebbero essere poco utili, sotto questo punto di vista, nell’ipotesi di una trasmissione aerea.

Restano da considerare i respiratori FFP1, FFP2, e FFP3. Si tratta di dispositivi solitamente impiegati per la sicurezza sul lavoro (ove ci sia rischio di tossicità industriale, ambientale o microbiologica). Questi dovrebbero in teoria essere più adatti a limitare l’entrata di agenti più piccoli e offrono una adesione al viso maggiore, per la loro conformazione e progettazione. Anche in ragione di ciò, non presentano il difetto di differenza fra interno ed esterno che hanno le mascherine chirurgiche. Sono anch’essi composti, nello strato filtrante, di polipropilene melt blown, anche se hanno uno spessore maggiore delle chirurgiche. In realtà la capacità filtrante di questi dispositivi, varia. Le FFP1 hanno una capacità filtrante praticamente pari a quella delle mascherine chirurgiche. Le FFP2 (o N95) hanno una capacità filtrante media di circa il 90%, che nelle FFP3 (N99 o 100) arrivano sino al 98%9. Le FFP3 hanno una maglia molto stretta, in grado di filtrare particelle anche di 39 nm, dunque persino virus10. Il CDC americano raccomanda l’uso di dispositivi almeno N95 per i lavoratori in contesti sanitari a rischio epidemiologico. Tuttavia uno studio del 2006 pubblicato su American Journal of Infection Controlcondotto su diversi dispositivi certificati N95mostrava un’ampia variabilità nell’efficienza di filtrazione, che variava fra il 20.5% e 84.5% rispetto al virione testato. Un’ampia divergenza dai livelli teoricamente previsti, pur essendo ugualmente conformi agli standard di certificazione11. Lo studio concludeva così:

I respiratori N95 potrebbero non fornire il livello di protezione previsto contro i virus. Alcune mascherine chirurgiche possono consentire a una frazione significativa di virus dispersi nell’aria di penetrare attraverso i loro filtri, fornendo una protezione molto bassa contro agenti infettivi in aerosol nella gamma di dimensioni da 10 a 80 nm. Va notato che le mascherine chirurgiche sono progettate principalmente per proteggere l’ambiente da chi lo indossa, mentre i respiratori dovrebbero proteggere chi li indossa dall’ambiente.

Dunque anche le FFP2, ritenute superiori alle chirurgiche, non garantiscono necessariamente un filtraggio adeguato degli aerosol veicolanti i virus. Nell’ipotesi che il SARS-CoV-2 sia sufficientemente veicolato dall’aerosol (in quantità sufficienti a dare patogenesi), neppure queste mascherine altamente tecniche forniscono la garanzia che ci si può aspettare, né nella protezione di chi la indossa, né per escludere di contaminare l’ambiente circostante. Le FFP3 sono l’unico dispositivo che garantisce una protezione certa. Va detto però che sia le FFP2 che le FFP3 sono scarsamente diffuse, oltre che più costose. Inoltre maggiore è il potere filtrante maggiore sarà anche la resistenza alla traspirazione, e quindi la difficoltà a respirare, riducendo la compliance del dispositivo. L’accumulo di aria umida e calda, oltre che carica di anidride carbonica sul viso e sulle mucose respiratorie rende questi dispostivi ancora meno accettabili di una semplice mascherina chirurgica. Per questo è difficile che possano essere tenuti per lungo tempo anche in contesti lavorativi. L’uso continuativo e protratto è fastidioso e poco salutare come vedremo. Pertanto spesso questi dispositivi sono dotati di valvola di uscita, che permette di mantenere protetto l’operatore ma non l’ambiente e gli altri. In questo modo, dato l’uso prefissato dalle disposizioni governative, anche tali dispositivi sarebbero inadatti. In effetti i DPCM non sembrano escludere i respiratori dotati di valvola, tuttavia questi non garantiscono nessuna protezione per l’ambiente esterno e le altre persone, dunque il loro utilizzo contraddice lo spirito “altruistico” della norma prevista.

Tutti i vari dispositivi, dunque, sembrano non aderire e non soddisfare, o soddisfare solo in parte, le prerogative che sarebbero postulate nel razionale della norma.

Le scarse evidenze a favore

A conferma di quanto detto sulla mancanza di informazioni sulla trasmissione del SARS-CoV-2, in uno studio di metanalisi su The Lancet (giugno 2020), basato studi precedenti su SARS e MERS, che analizzando una decina di studi darebbe un giudizio a favore delle mascherine, uno degli autori riconosce che il grado di certezza dei risultati è basso:

Sebbene i nostri risultati forniscano prove di certezza moderata e bassa, questo è il primo studio a sintetizzare tutte le informazioni dirette da COVID-19 e, quindi, fornisce le migliori prove attualmente disponibili per informare un uso ottimale di questi interventi comuni e semplici12.

In realtà, le prove a favore di questi interventi sono deboli, appunto perché giustificati da un grado di certezza basso. Lo studio inoltre presenta varie limitazioni: gran parte degli studi su cui si fondava erano riferiti a SARS e MERS, e ben poco sul Covid-19, non esaminavano l’effetto della durata dell’esposizione13 sul rischio di trasmissione (fattore che abbiamo già detto essere trascurato), e soprattutto erano studi quasi sempre effettuati su contesti sanitari, dunque in ambienti ad alto rischio infettivo. Ma di fatto questa ricerca non offre nulla di nuovo: oltre ad avere un basso indice di certezza, non dice nulla a favore dell’uso delle mascherine da parte della popolazione generale. Pertanto questa pubblicazione non può essere usata come argomentazione a favore di qualcosa che non prova.

Generalmente, finora, le evidenze a favore di un uso universale da parte di tutta la popolazione (opzione che sarebbe costosa, e non priva di inconvenienti per la vita sociale o il benessere) circa i fenomeni epidemici sono scarse o nulle. Il motivo è che l’idea di un uso esteso e generalizzato, per tempi prolungati, cioè in modo “stabile” (come si pretende di fare in Italia) da parte della popolazione generale è in realtà piuttosto bizzarra per cui nel corso delle ultime forme di influenze pandemiche questo impiego non è mai stato fatto. Gran parte degli studi sono circoscritti all’uso di mascherine chirurgiche o altri dispositivi su gruppi speciali, lavoratori sanitari, persone che assistevano i malati o familiari di malati in quarantena.

Il 23 luglio il prof. Carl Heneghan dell’Università di Oxford e direttore in Inghilterra del Centro per la Medicina basata sull’Evidenza, insieme al ricercatore Tom Jefferson facendo il punto dello stato dell’arte, ricordava in una pubblicazione sul sito del suo centro che, nel 2010, alla fine dell’influenza suina, solo sei studi randomizzati erano stati condotti sull’uso di mascherine, per le ILI (influenza like-illness), condotti come già abbiamo detto su lavoratori sanitari o su cluster di studenti o contesti familiari. Le uniche evidenze erano scarsa compliance delle mascherine, rari casi riportati di danno, e la necessità di pianificare ulteriori studi14. Malgrado ciò, gli Autori lamentavano, la scarsità degli studi successivi, solo altri sei, facendo salire il denominatore dei soggetti inclusi a 13.259. Sulla base di questi 12 studi randomizzati, gli Autori concludono che questi dati:

hanno dimostrato che le maschere da sole non hanno alcun effetto significativo nell’interrompere la diffusione di ILI o influenza nella popolazione generale, né negli operatori sanitari.

È oggetto di discussione se tali osservazioni siano estendibili alla trasmissione del SARS-CoV-2; tuttavia nel quadro dell’ipotesi che il nuovo coronavirus si diffonda come gli altri ceppi patogeni influenza-like, fra cui altri ceppi di coronavirus, questo risultato acquista ancora maggiore significato.

Il prof. Heneghan osserva anche la carenza di metodo con cui gli scienziati si stanno muovendo in questo contesto:

Riteniamo che non sia saggio dedurre il nesso di causalità sulla base di osservazioni geografiche regionali come hanno fatto diversi sostenitori delle mascherine. I picchi nei casi possono facilmente confutare le correlazioni, la conformità con maschere e altre misure è spesso variabile e gli elementi di confondimento non possono essere considerati in tale ricerca osservativa. […]. Questo abbandono del modus operandi scientifico e la mancanza di lungimiranza ha lasciato il campo aperto al gioco di opinioni, visioni radicali e influenza politica.

Heneghan infatti, oltre alla mancanza di metodo scientifico, rileva anche, all’inizio dell’articolo, la forte politicizzazione della questione delle mascherine in pubblico per la popolazione, riportando un articolo del sito Bloomberg.com, dell’importante network giornalistico omonimo.

Proseguiamo riportando alcuni esempi interessanti di studi randomizzati che non mostrano particolari evidenze di efficacia delle mascherine. Uno studio randomizzato di Alfelali et al.15per fare chiarezza sull’efficacia delle mascherine nella protezione da infezioni virali respiratorie, cui precedenti studi avevano dato risposte non conclusive, fu condotto fra il 2013 e il 2015. Questo studio fa parte dei dodici studi più importanti che erano considerati nell’articolo di Heneghan. Furono randomizzati 7.687 adulti in pellegrinaggio alla Mecca: 3.864 al gruppo con le mascherine e 3.823 al gruppo di controllo. Per cinque giorni di osservazione al gruppo di intervento furono fornite mascherine chirurgiche standard e date istruzioni per indossarle, il più a lungo possibile. Venivano registrati diari giornalieri di tutti i gruppi circa la comparsa di sintomi respiratori. Ai soggetti con almeno due sintomi respiratori o un sintomo più la febbre veniva effettuato un tampone nasofaringeo per conferma di laboratorio. I risultati furono: Nel gruppo di intervento il 27% dei partecipanti ha indossato le mascherine giornalmente, il 51% a intermittenza, il 22% non le ha indossate; nel gruppo di controllo i numeri sono stati rispettivamente 15%, 38% e 43%. Gli effetti avversi più comuni delle maschere sono stati difficoltà di respirare (26%) e scomodità (22%), mentre il 3% ha riferito sensazione di calore, sudorazione e cattivo odore, o visione offuscata con gli occhiali. Oltre il 2% dei partecipanti ha riferito limiti all’interazione sociale. Il 43% complessivo dei tamponi nasofaringei ha individuato virus respiratori in soggetti sintomatici: soprattutto rhinovirus, seguiti da virus dell’influenza, enterovirus, virus parainfluenzali, coronavirus, adenovirus, e altri virus. Riguardo l’analisi intention-to-treat il gruppo di intervento non ha dimostrato efficacia né verso infezioni respiratorie confermate in laboratorio (OR 1,35; IC 95% 0,88-2,07), né verso infezioni respiratorie cliniche (OR 1,1; 0,88-1,39) rispetto al gruppo di controllo16 . Ancora più significativa è l’analisi per-protocol (cioè sui casi che realmente hanno seguito le indicazioni). In questo secondo caso emerge che il sottogruppo di intervento che ha utilizzato effettivamente le mascherine rispetto al sottogruppo di controllo generava un OR di 1,21 (0,87-1,69) per le infezioni virali respiratorie confermate in laboratorio, e un OR di 1,3 (0,99-1,83), per quelle su base clinica.

Si tratta di uno studio molto significativo, sia per la rilevanza statistica, dato l’alto numero dei partecipanti, sia per il caso esaminato: i soggetti erano in pellegrinaggio e in viaggio e quindi anche in ambienti aperti ancorché affollati. Questo riproduce in modo interessante il caso del provvedimento in esame, cioè l’uso di mascherine negli ambienti esterni. È chiaro che poiché le misurazioni riportate indicavano un fattore di probabilità superiore a 1, paradossalmente l’uso delle mascherine si è rivelato un fattore di rischio e non di protezione. Questo risultato contrasta con l’enfasi politica e mediatica sull’uso massivo delle mascherine. La spiegazione può risiedere nel fatto che, a fronte di una parziale protezione esterna, l’istinto a toccarsi, sistemare la mascherina sul volto, potrebbe favorire il contagio per contatto; anche il mantenere per lungo tempo un oggetto potenzialmente contaminato a strettissimo contatto con naso e bocca può essere un altro fattore. La sostituzione delle mascherine dovrebbe essere effettuata regolarmente e di frequente nel corso della giornata. Tali condizioni purtroppo non possono essere riprodotte su una popolazione estesa e non addestrata. Questo elemento dovrebbe essere tenuto in considerazione da chi effettua scelte pubbliche, poiché sussiste l’evidenza che la mascherina possa rivelarsi un fattore di rischio, se usata fuori dal suo contesto di origine, come in questo caso.

Un altro studio di interesse per i suoi risultati è stato fatto sul confronto fra mascherine chirurgiche e di stoffa comune in un gruppo di lavoratori sanitari. Si tratta di uno randomizzato del 2015 condotto da McIntyre et al. su una coorte di 500 persone in Vietnam che lavoravano negli ospedali durante influenza stagionale17. Per un tempo di osservazione di quattro settimane, furono osservati un gruppo di controllo, e due gruppi, fra cui uno con mascherine chirurgiche e uno con mascherine di stoffa comune. Dopo l’aggiustamento per altri fattori, il gruppo con le mascherine in stoffa ha avuto un’incidenza di ILI (simil-influenze) sensibilmente più alta rispetto a quello con mascherine chirurgiche. Lo studio ha rilevato un RR18 di 6,4 (IC 95% 1,45 – 28,65) per le ILI e di 1,72 (1,01 a 2,94) per le infezioni confermate in laboratorio, nel gruppo delle mascherine di stoffa rispetto a quello con chirurgiche. Questo è stato il primo (e raro) studio randomizzato sulle mascherine di stoffa.

Le conclusioni degli autori riportano la seguente considerazione:

I risultati mettono in guardia contro l’uso di maschere di stoffa. Questa è una scoperta importante per informare la salute e la sicurezza sul lavoro. La ritenzione di umidità, il riutilizzo di maschere in tessuto e una scarsa filtrazione possono aumentare il rischio di infezione. Sono necessarie ulteriori ricerche per informare l’uso diffuso di maschere di stoffa a livello globale. Tuttavia, come misura precauzionale, le maschere in tessuto non dovrebbero essere raccomandate agli operatori sanitari, in particolare in situazioni ad alto rischio, e le linee guida devono essere aggiornate.

Abbiamo visto dunque dallo studio precedente che l’uso di mascherine chirurgiche fuori contesto (all’aperto, popolazione non addestrata, affollamento) può risultare addirittura un fattore di rischio anziché di protezione. Qui acquisiamo un’informazione ulteriore circa l’aumento di rischi infettivi dall’uso sistematico di mascherine di stoffa. Ciò è importante perché le indicazioni fornite dalle disposizioni governative italiane non garantiscono nessuna omologazione dei materiali, una certa frazione della popolazione acquista e indossa mascherine di stoffa, più o meno di marca, personalizzato o decorate per motivi estetici. L’incoraggiamento o l’obbligo di uso per lungo tempo può quindi rivelarsi un ulteriore fattore di rischio, maggiore di quello delle mascherine chirurgiche.

Ancora, uno studio di metanalisi piuttosto recente (e non ancora sottoposto a peer-review), condotto da Tom Jefferson et al.19, comprendeva 15 precedenti studi randomizzati, su lavoratori sanitari o popolazione in quarantena. I risultati sono stati che rispetto al non uso di mascherine, non vi era significativa riduzione di ILI o influenza (RR rispettivamente 0,93 e 0,84), e tanto per le mascherine chirurgiche che per le più tecniche N95. Lo studio conclude:

Non c’erano prove sufficienti per fornire una raccomandazione sull’uso delle barriere facciali senza altre misure. Abbiamo trovato prove insufficienti per una differenza tra maschere chirurgiche e respiratori N95 e prove limitate a supporto dell’efficacia della quarantena.

Infine uno studio ugualmente recente (maggio 2020) di ricercatori dell’Università di Hong Kong20, e pubblicato per il CDC americano, relativo alle misure non farmaceutiche di prevenzione usate durante le ultime influenze pandemiche, afferma:

Sebbene i modelli meccanicistici supportino il potenziale effetto dell’igiene delle mani o delle maschere per il viso, le prove di 14 studi randomizzati controllati di queste misure non hanno supportato un effetto sostanziale sulla trasmissione dell’influenza confermata in laboratorio. Allo stesso modo abbiamo trovato prove limitate sull’efficacia del miglioramento di igiene e sanificazione ambientale. Abbiamo identificato diverse importanti lacune nelle conoscenze che richiedono ulteriori ricerche, fondamentalmente una migliore caratterizzazione di modalità di trasmissione da persona a persona.

E nello specifico sulle mascherine facciali in generale:

Esistono prove limitate della loro efficacia nella prevenzione della trasmissione del virus dell’influenza se indossate dalla persona infetta per il controllo della fonte di diffusione o se indossate da persone non infette per ridurre l’esposizione. La nostra revisione sistematica non ha riscontrato alcun significativo effetto delle mascherine facciali sulla trasmissione dell’influenza confermata in laboratorio.

Possiamo segnalare anche uno studio condotto in Tailandia nel 2011 da Simmerman e colleghi, sull’efficacia di mascherine nel contrasto alla diffusione dell’influenza H1N1 in cluster domestici. Il risultato, sebbene gli autori ricordassero i limiti della sperimentazione, è stato che:

La trasmissione dell’influenza non è stata ridotta dagli interventi per promuovere il lavaggio delle mani e l’uso della mascherina facciale.

Anche uno studio randomizzato condotto in Francia durante l’influenza stagionale 2008-2009 ha dato risultati coerenti con queste osservazioni sperimentali21. Si tratta di uno studio sulla trasmissione domestica condotto su un campione di 105 famiglie, valutando la comparsa delle ILI su base clinica. Sebbene lo studio abbia compreso solo un numero inferiore di famiglie di quelle pianificate all’inizio (372), e sebbene questa limitazione possa ridurre il significato statistico, anche in questo caso gli autori riportano:

Non abbiamo mostrato alcuna differenza significativa nella proporzione di ILI tra i contatti familiari tra il braccio di intervento e il braccio di controllo. […].  non possiamo escludere formalmente che il nostro studio possa aver perso una sostanziale efficacia delle maschere facciali; cioè una relativa riduzione del tasso di attacco ILI fino al 56%. Tuttavia non abbiamo identificato alcuna tendenza nei risultati o durante le numerose analisi secondarie che suggerissero che l’inclusione della dimensione del campione pianificata potesse comportare differenze significative.

E concordano su risultati degli altri studi:

L’analisi di altri studi che testano l’efficacia dell’uso di mascherine facciali nelle famiglie non ha mostrato una diminuzione significativa del tasso di malattia secondaria nelle loro analisi di intent-to-treat primarie.

Peraltro, lo riportiamo a titolo di esempio, rimane tuttora controverso se addirittura l’uso in sala operatoria delle mascherine chirurgiche abbia effettivamente un senso nel ridurre le infezioni. Uno studio randomizzato condotto nel 1991 comprendeva 3.088 interventi chirurgici, divisi in un gruppo di operazioni dove chirurghi e infermieri non hanno usato mascherine e un altro in cui le operazioni sono state condotte secondo la prassi corrente con l’uso di questi dispositivi22. Contrariamente alle aspettative nel gruppo senza mascherine si sono riscontrate un 3,5% di infezioni post-operatorie, mentre nel gruppo con mascherine la percentuale di infezioni è stata del 4,7%! Questa differenza non era statisticamente significativa (p> 0,05). Il dr. Göran Tunevall autore dello studio svedese ha riportato:

Non è mai stato dimostrato che l’uso di mascherine chirurgiche riduca le infezioni postoperatorie della ferita. Al contrario, è stata segnalata una diminuzione del 50% dopo aver omesso le maschere per il viso. Il presente studio è stato progettato per rivelare qualsiasi differenza del 30% o superiore nei tassi di infezione delle ferite di chirurgia generale utilizzando o meno maschere facciali.

Quanto alla presente situazione “pandemica”, sia riguardo all’opportunità di introdurre queste misure di uso esteso delle mascherine, persino all’aperto, sia riguardo l’evidenza di efficacia o meno, riteniamo che il decisore pubblico dovrebbe tenere presente l’esperienza degli altri Paesi che non hanno introdotto nessun uso obbligatorio di mascherine neppure negli spazi chiusi. L’esempio della Svezia è evidente23. Gli Stati Uniti hanno recentemente deciso di bloccare ogni obbligo di mascherine su mezzi pubblici e aerei su tutto il territorio federale24. L’Austria da maggio ha allentato ogni obbligo di mascherine, richiedendole solo nei mezzi pubblici e nelle farmacie25. Attualmente l’obbligo delle mascherine è decaduto in Cina26, sia in relazione all’uso esterno27 sia nelle scuole. È significativo che a settembre alla riapertura delle scuole è avvenuta senza nessuna richiesta o obbligo di mascherine28. In Cina da agosto, nella stessa Wuhan si tengono eventi pubblici senza distanziamento e senza mascherine29, i tanto vituperati “divertimenti” che i media e i politici italiani colpevolizzano. Ad oggi non c’è nessuna evidenza di maggiore mortalità in Cina. Malgrado ciò i casi confermati e i decessi non aumentano significativamente in Cina, e in ogni caso, negli ultimi due mesi non c’è stato nessun incremento da destare allarme30. A ciò dobbiamo aggiungere che di recente, rispetto alla decisione di mettere le mascherine all’aperto come “obbligo”, si sono espressi negativamente virologi e infettivologi italiani come il prof. Matteo Bassetti, Giorgio Palù, Maria Rita Gismondo, Giuseppe Remuzzi (La Verità, mercoledì 7 ottobre), e persino Andrea Crisanti, Massimo Galli, e Guido Silvestri31. Su quale fondamento si è basato il decisore politico, agendo contro le evidenze e contro il parere di esperti di riferimento nel richiedere restrizioni e sacrifici non giustificati?

Danni e rischi di effetti collaterali

Nessuna pratica di solito è a costo zero, occorre sempre ben valutare i rischi e le opportunità che qualsiasi manovra ci offre e fare un bilancio. A fronte di evidenze favorevoli scarse o nulle che giustifichino l’uso di mascherine se non su pazienti malati e in fase attiva (sintomatico e potenzialmente infettivo), oppure in ambienti sanitari (ospedali, RSA etc.), vediamo quali potenziali rischi dimostrati o supposti, si prospettano per uno sovraesteso e protratto in modo sistematico (ad esempio per tutto l’orario lavorativo) per ampie fasce della popolazione generale.

Abbiamo già accennato allo studio di McIntyre e colleghi sugli effetti negativi delle mascherine di stoffa (aumento casi di infezioni secondarie o altre infezioni). Il rischio di infezioni o autoinfezioni può essere riconducibile all’uso prolungato di mascherine da parte della popolazione non addestrata e soprattutto non abituata ad un uso corretto32. Questo è difficilmente evitabile quando tale uso viene imposto per lunghi periodi di tempo a persone di ogni età e condizione sociale. La necessità di toccarsi, sistemare la mascherina, alleviare i fastidi, anche solo come reazione riflessa o psicologica, è un fattore di estrema importanza, soprattutto nel personale non sanitario. Questo è quanto osservato anche di recente in uno studio di psicologia sociale e scienze del comportamento Don’t touch the T-Zone—how to block a key pathway to infection with SARS-CoV-233. Uno studio del 2014 riportato sull’ American Journal of Infection Control34, valutava il fattore di rischio della trasmissione per contatto di alcuni patogeni, proprio in relazione alla autoinoculazione per contatto con apparecchiature mediche come stetoscopi etc. è ragionevole aspettarsi che le conclusioni possano essere estese anche alla manipolazione delle mascherine, soprattutto dalla parte meno attenta della popolazione (anziani in primis, i più a rischio), o da tutti coloro che mancano di addestramento. Anche in ragione di queste evidenze, viene da chiedersi se l’uso universale delle mascherine, in assenza di un adeguato aumento dell’igiene delle mani, non possa corrispondere ad un certo e poco auspicabile effetto boomerang. Anche la mancata sostituzione per tempo delle mascherine, oppure l’inadeguato lavaggio e rigenerazione di quelle riutilizzabili, rientrano fra gli usi incongrui di questi dispositivi, comportamenti inadeguati non controllabili e non difficilmente correggibili nel breve periodo. È dunque non da escludersi che questa pratica estesa non possa essere un fattore di rischio per infezioni respiratorie che invece pretende di limitare.

Un secondo fronte di infezione, aperto dal contatto prolungato con dispositivi facciali, è quello delle infezioni cutanee. La parola “Maskne” è un neologismo inglese per denotare l’acne da mascherina, ed è stata riportata proprio in seguito all’uso esteso che ne è stato fatto durante questo 2020 in seguito alla proposta di uso diffuso delle mascherine. Questo è riportato da alcune pubblicazioni scientifiche35 36 37. L’emergenza di questo fenomeno proprio in questo anno è conferma diretta della sovraesposizione all’uso di mascherine, poiché il fenomeno non era stato rilevato in passato, né durante precedenti influenze pandemiche. È diretta conseguenza di un uso sovradimensionato per estensione di utenti e per durato dell’utilizzo, rispetto agli usi precedenti. È anche indiretta conferma del fatto che finora nessun uso universale sulla popolazione generale è stato fatto in tempi relativamente recenti.

Oltre ai rischi infettivi, vi sono quelli metabolici e di tossicità, legati alla riduzione di ossigeno e all’aumento di ricircolo dell’aria espirata, con aumento di anidride carbonica. Gli effetti di un tale uso esteso e prolungato per la popolazione generale va ben oltre l’impegno richiesto ad un operatore sanitario, che generalmente ne fa un uso intermittente e circoscritto nel tempo strettamente necessario. Le conseguenze più dirette possono essere ipercapnia e ipossia. In uno studio del 2015 su operatori sanitari (fra cui donne incinte) che indossavano respiratori N95 è stato osservato una riduzione del volume corrente polmonare del 23%, una riduzione nel volume di ossigeno inspirato del 13,8 % e una riduzione dell’17,7 %nel volume di anidride carbonica espirata38. Se da una parte gli studi effettuati negli anni passati non hanno evidenziato drammatici effetti sulla frequenza cardiaca e respiratoria, in studi su operatori sanitari, va detto questi sono stati per lo più condotti su lavoratori che indossavano respiratori N95 (FFP2) con valvole, quindi non quelle richieste per “proteggere gli altri”, e per un tempo di lavoro osservato di un’ora39. Si tratta quindi di osservazioni a favore, tuttavia in condizioni sperimentali ben diverse da quelle richieste attualmente. Al contrario tempi più lunghi di esposizione all’uso di mascherine chirurgiche su chirurghi nel corso di interventi prolungati ha in effetti evidenziato fenomeni significativi di riduzione della saturazione arteriosa di ossigeno e aumento del battito cardiaco (A. Beder et al., 2008), sebbene si sia trattato in questo caso di uno studio preliminare40. La mancanza di progettazione di studi controllati in passato, su ampia scala, non permette di minimizzare l’esposizione a questi eventi. In realtà le maggiori evidenze stanno emergendo in questo 2020. Una conseguenza degli effetti respiratori e metabolici indotti da uso prolungato di dispositivi, è il riscontro di frequenti cefalee nei sanitari che per lungo tempo hanno dovuto indossare protezioni durante il lavoro in prima linea, come riportato dalla American Headache Society41. Del resto prove empiriche del drammatico aumento di anidride carbonica nello spazio respiratorio sotto le mascherine possono essere ottenute con rilevatori di CO2. Alcuni giornalisti d’inchiesta lo hanno fatto42. Si tratta ovviamente di osservazioni empiriche, ma è deprecabile che studi significativi non siano stati progettati sinora sull’uso prolungato di respiratori. Tuttavia i dati che emergono suggeriscono prudenza nel raccomandare l’uso esteso di questi dispositivi se non nei contesti strettamente necessari e per il periodo più breve possibile.

Ancora sui possibili effetti centrali, per tempi prolungati, della riduzione di ossigeno, ci sembra interessante riportare i dubbi e le preoccupazioni a riguardo, di una neurologa tedesca, la dr.Margarite Griesz-Brisson43 e del neurochirurgo americano Russell Blaylock entrambi estremamente prudenti sull’uso indiscriminato delle mascherine. Riteniamo che per quanto il tema sia controverso, i dubbi di questi siano meritevoli di attenzione. Sempre a titolo di documentazione, un altro scienziato molto critico sulla possibilità e la fondatezza di un uso universale e per giunta obbligatorio delle mascherine, è il fisico dell’università di Ottowa, nonché attivista per i diritti civili, Denis Rancourt44.

Un altro effetto generale, oltre alla ridotta espirazione di anidride carbonica e al relativo rischio di ipossia, viene dagli effetti studiati del calore facciale e di altri parametri qui implicati sulla termoregolazione e su altri fattori metabolici generali. Uno studio comparativo su 195 articoli in letteratura, pubblicato nel 201145, ha riportato queste osservazioni:

L’uso di maschere protettive (PFM) ha un impatto negativo sui meccanismi respiratori e dermici della termoregolazione umana attraverso la compromissione dei processi di convezione, evaporazione e radiazione. Gli aumenti relativamente minori riportati nella temperatura interna direttamente attribuibili all’uso di PFM suggeriscono che le percezioni associate di aumento della temperatura corporea possono avere una componente psicologica significativa o che sono coinvolti cambiamenti della temperatura cerebrale regionale o globale. Le modifiche alla struttura, ai componenti e ai materiali del PFM potrebbero consentire una migliore dissipazione del calore e una maggiore compliance all’uso. […] Gli individui con disturbi d’ansia sottostanti (ad esempio attacchi di panico) corrono il rischio di veder provocare lo stesso quando indossano PFM. Il sottotipo respiratorio del disturbo di panico mostra una sintomatologia respiratoria prominente durante gli attacchi di panico che è probabilmente collegata a un falso allarme di soffocamento nel sistema nervoso centrale. Indossare PFM (ad esempio maschere antigas) può causare sensazioni claustrofobiche ed è stato usato come manovra provocatoria nei casi di claustrofobia da lieve a moderata (Rachman, 1993; Radomsky et al., 2001). La solita risposta all’insorgenza di un attacco di panico o di una reazione claustrofobica, indipendentemente dall’evento scatenante, è quella simpaticomimetica determinata dal rilascio di neurotrasmettitori (ad es. catecolamine come adrenalina e noradrenalina). Il rilascio di questi neurotrasmettitori si traduce in un aumento dell’attività metabolica che si manifesta fisicamente come frequenza cardiaca e respiratoria elevate, palpitazioni, pressione sanguigna elevata, ecc., Il cosiddetto fenomeno di “lotta o fuga”.

Riteniamo che questi fattori debbano essere valutati prima di estendere l’uso delle mascherine a tutte le fasce della popolazione indiscriminatamente (anziani, adolescenti, bambini), senza studiare i rischi e i fattori psico-fisiologici e il relativo bilancio costi-benefici.

Data la natura potenziale di danno, non solo funzionale ma anche eventualmente strutturale di usi protratti nel tempo e resi sistematici (es. acne, danni neurologici nei bambini, seppure rari, oppure danni metabolici o psicologici), sarebbe opportuno anche che il decisore pubblico considerasse i potenziali costi per lo Stato in termini di cause o richieste di risarcimenti.

Data l’assenza di benefici provati e a fronte di tutto questo, alla luce delle evidenze riportate, riteniamo vi siano prove che i rischi siano maggiori dei benefici (con l’accezione dell’uso per gli operatori sanitari dei contesti di rischio) e che il consiglio della migliore scienza possa essere riassunto nelle parole di un paper rilasciato dall’American Medical Association:

Le mascherine per il viso devono essere utilizzate solo da soggetti che presentano sintomi di infezione respiratoria come tosse, starnuti o, in alcuni casi, febbre. Le maschere per il viso devono essere indossate anche da operatori sanitari, da persone che si prendono cura o sono a stretto contatto con persone che hanno infezioni respiratorie, o altrimenti come indicato da un medico. Le maschere per il viso non dovrebbero essere indossate da individui sani per proteggersi dall’acquisizione di infezioni respiratorie perché non ci sono prove che suggeriscano che le maschere per il viso indossate da individui sani siano efficaci nel prevenire le persone che si ammalano. Le maschere per il viso dovrebbero essere riservate a chi ne ha bisogno perché le maschere possono scarseggiare durante i periodi di infezione respiratoria diffusa. Poiché i respiratori N95 richiedono speciali test di adattamento, non sono consigliati per l’uso da parte del pubblico in generale.46

Conclusioni

Probabilmente il più onesto punto di vista sulla faccenda è quello espresso da un articolo del New England Journal of Medicine a marzo di quest’anno:

Sappiamo che indossare una mascherina fuori dalle strutture sanitarie offre poca o nessuna protezione dalle infezioni.

Il che è un riconoscimento importante di quello che è il parere condiviso della comunità scientifica. Inoltre:

Potrebbero esserci ulteriori vantaggi per ampie politiche di uso che vanno oltre il loro contributo tecnico alla riduzione della trasmissione di patogeni. Le maschere sono promemoria visibili di un patogeno altrimenti invisibile ma ampiamente diffuso e possono ricordare alle persone l’importanza del distanziamento sociale e di altre misure di controllo delle infezioni. È anche chiaro che le maschere svolgono ruoli simbolici. Le maschere non sono solo strumenti, sono anche talismani che possono aiutare ad aumentare il senso di sicurezza, benessere e fiducia degli operatori sanitari nei loro ospedali. 47

Ecco, crediamo che la ragione della pressione pubblica sulle mascherine sia appunto di tipo extra-scientifico: che sia comunicativa, simbolica e psicologica (resta tuttavia da verificare se la risultante finale di questa operazione psicologica sia positiva o negativa). Forse è questa una delle ragioni alla base della forte pressione politica di alcuni governi sulle mascherine. Ad ogni modo “talismani” e “simboli” non fanno parte dell’orizzonte operativo del metodo galileiano, né della medicina basata sull’evidenza. È molto deprecabile che il decisore politico stia operando scelte basate su derive irrazionali, lontane dal metodo scientifico e non mediate da nessuna proporzionalità fra minaccia reale e gravità delle misure adottate.

Matteo Martini, dott. in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche

1 https://www.ilgiornale.it/news/cronache/coronavirus-quando-va-indossata-mascherina-1841830.html

2 file:///C:/Users/Utente/Downloads/WHO-2019-nCov-IPC_Masks-2020.4-eng.pdf (pag. 6)

3 https://www.youtube.com/watch?v=TDFsWybjkmg

4 https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32242113/

5 https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S016041202031254X

6 https://www.porometer.com/PDFS/AN-CharacterisationofFacemasks.pdf

7 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7115281/

8 https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2452199X20301481

9 https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/mascherine-come-sono-fatte-che-cosa-servono-cosa-filtrano-come-riutilizzarle/e7db0f72-78f1-11ea-ab65-4f14b5300fbb-va.shtml

10 https://aaqr.org/articles/aaqr-16-09-oa-0390.pdf

11 https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0196655305009119

12 https://www.thelancet.com/article/S0140-6736(20)31142-9/fulltext

13 Gli stessi autori lo dicono: Non abbiamo valutato specificamente l’effetto della durata dell’esposizione sul rischio di trasmissione.

14 https://www.cebm.net/covid-19/masking-lack-of-evidence-with-politics/?fbclid=IwAR02B1wx2ULdldRkGkvy_ckrGOfdfpBzgQrWq5APKlqH4Z8KGnEt36UOz28

15 https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3349234

16 Il metodo di misurazione considerato è OR = odds ratio, rapporto di probabilità (rapporto fra le frequenze di comparsa della malattia rispettivamente nei soggetti esposti e in quelli non esposti al fattore di rischio in studio). Un OR pari a 1 indica che il fattore di rischio è ininfluente sulla comparsa della malattia; un valore dell’OR è minore di 1 che il fattore in realtà è una difesa contro la malattia. Un valore maggiore di 1, stabilisce un fattore di rischio.

17 https://bmjopen.bmj.com/content/5/4/e006577?fbclid=IwAR3s0PzAKo4B9NASJoZd-x4I75-amzG0Dh-GpXPRMe951xISJJpyHiMyMl0

18 Rischio relativo, altro metodo di misurazione, che stima probabilità che un soggetto, appartenente ad un gruppo esposto a determinati fattori, sviluppi la malattia, rispetto alla probabilità che un soggetto appartenente ad un gruppo non esposto sviluppi la stessa malattia.

19 https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2020.03.30.20047217v2?fbclid=IwAR01sWBc5sTRO2wAd-fo-FpHFgq3D2jIGVByHQXRm4seBQ9B7FdpqXCThsI

20 https://wwwnc.cdc.gov/eid/article/26/5/19-0994_article

21 https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0013998

22 https://link.springer.com/article/10.1007/BF01658736

23 https://www.databaseitalia.it/svezia-vicina-alla-vittoria-sul-coronavirus-nessun-lockdown-e-nessun-obbligo-di-mascherine/?fbclid=IwAR2jf1M9Q8KqCTaxZDW8l997se–4xN8DcmwY6xSvmTeA8qSSLAWL18b5UU

24 https://www.corriere.it/esteri/20_ottobre_10/casa-bianca-ha-bloccato-l-obbligo-maschera-treni-aerei-bus-7b2500f6-0ac6-11eb-a7e3-5ef727c833ab.shtml?fbclid=IwAR317VpXsyhmjj3DL7jX7-NUlSLuc51ED3pZH5-D9rSEFv6VKtimaNpIgGU

25 https://www.thelocal.at/20200530/austria-to-relax-mandatory-mask-rules-in-coronavirus-fight

26 https://www.robert-schuman.eu/en/european-issues/0569-in-the-time-of-covid-19-china-s-mask-has-fallen-with-regard-to-europe

27 https://economictimes.indiatimes.com/news/international/world-news/coronavirus-beijing-announces-wearing-masks-outdoors-not-necessary/articleshow/75787617.cms

28 https://www.unionesarda.it/en/articolo/news/mondo/2020/09/01/riaprono-le-scuole-a-wuhan-rigide-misure-di-sicurezza-ma-niente-m-137-1054991.html

29 https://www.rainews.it/dl/rainews/media/Wuhan-mega-party-al-parco-acquatico-in-migliaia-si-scatenano-spalla-a-spalla-senza-mascherina-1fc7bca0-7b3c-4da5-bb17-c04301d8b61d.html#foto-1

30 https://www.statista.com/statistics/1092918/china-wuhan-coronavirus-2019ncov-confirmed-and-deceased-number/

31 https://www.oltre.tv/mascherina-obbligatoria-aperto-esperti-contro-conte/

32 https://www.aa.com.tr/en/health/improper-use-of-medical-masks-can-cause-infections-/1766676

33 https://blogs.bmj.com/bmj/2020/04/03/dont-touch-the-t-zone-how-to-block-a-key-pathway-to-infection-with-sars-cov-2/

34 https://www.ajicjournal.org/article/S0196-6553(14)01281-4/fulltext

35 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7300566/

36 https://jofskin.org/index.php/skin/article/view/953

37 https://www.jaad.org/article/S0190-9622%2820%2930392-3/fulltext

38 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4647822/

39 https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20420727/

40 http://scielo.isciii.es/pdf/neuro/v19n2/3.pdf

41 https://headachejournal.onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/head.13811

42https://www.youtube.com/watch?feature=youtu.be&v=AITEnS4miH8&fbclid=IwAR0nc9SKnwKQTzzJGcpBp4uOkkrD3ZFgyTAbQmPhN3LdbFF2K6uOsyDho58&app=desktop

43 https://www.sott.net/article/442455-German-Neurologist-Warns-Against-Wearing-Facemasks-Oxygen-Deprivation-Causes-Permanent-Neurological-Damage

44 https://www.rcreader.com/sites/default/files/Denis-Rancourt-Face-masks-lies-damn-lies-and-public-health%3Dofficials-a-growing-body-of-evidence-August-03-2020.pdf

45 https://academic.oup.com/annweh/article/56/1/102/166254#1454170

46 https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2762694

47 https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/nejmp2006372