A cura di Mauro Sandri
Tutti ricordano che qualche mese fa il mainstream inneggiò alla sospensione senza stipendio di alcune Operatrici Socio Sanitarie di Belluno facendo assurgere ripugnanti presidenti di cooperative, titolari del diritto di vita o di morte dei loro dipendenti, ad eroi da emulare. Il Tribunale veneto stabilì,infatti, che fosse legittimo che un privato potesse sospendere dal lavoro, senza stipendio, gli operatori sanitari che non si volessero vaccinare. A quella sentenza ne fecero seguito tantissime analoghe che gettarono nello sconforto decine di migliaia di persone private,dall’oggi al domani dei minimi mezzi di sostentamento in assenza di un intervento a loro tutela dei sedicenti “sindacati dei lavoratori”. La sentenza del Tribunale di Milano più sotto commentata dagli avvocati che l’hanno ottenuta, ha un valore rilevante sia concreto che simbolico al medesimo tempo, perché restituisce dignità ad una intera categoria di sanitari, forse la più debole dell’intera catena e rappresenta, tuttavia, al contempo una prova che la via giudiziaria è, come tutte, difficile, ma può essere decisiva. Ovviamente il mainstream ignorerà questa sentenza, e per questo motivo è essenziale che venga diffusa il più possibile.
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Con la sentenza n. 2135 del 16 settembre 2021, la Sezione Lavoro del Tribunale di Milano ha riconosciuto,infatti, l’illegittimità della sospensione non retribuita di una operatrice sanitaria, dipendente di una Cooperativa privata, motivata dal rifiuto di sottoporsi al vaccino.
La sospensione era stata attuata in data 9 febbraio 2021 e, quindi, prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 44/2021. Era assente una normativa che disciplinasse la possibilità della sospensione non retribuita, prevedendo un apposito procedimento. La Cooperativa sosteneva, tuttavia, che il provvedimento di sospensione potesse rinvenire una sua base legale nell’art. 2087 del Codice Civile, norma che prevede l’obbligo del datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In particolare, il datore di lavoro sosteneva che la sospensione derivava dalla necessità di “adottare tutte le misure per la migliore tutela dei propri collaboratori, degli Ospiti e di tutti gli utenti e la vaccinazione anti-Covid19 in capo a tutti gli Operatori è requisito fondamentale per la corretta prosecuzione dell’attività”.
La difesa della lavoratrice si è impuntata su una varietà di argomentazioni. In questa sede è opportuno limitarci ad esporre le due ragioni che hanno concretamente trovato accoglimento. La prima è rappresentata dall’assenza, fuori da una specifica previsione legislativa, di un potere del datore di lavoro privato di imporre al proprio dipendente un trattamento sanitario a pena della perdita sostanziale (seppur temporanea) del posto di lavoro. La seconda è rappresentata dalla violazione del cd obbligo di ricollocamento (cd repêchage). Trattasi di un obbligo riconosciuto in via generale in ambito giuslavoristico, che importa la necessità per il datore di lavoro di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o, in mancanza, di livello inferiore, con il mantenimento del medesimo trattamento economico (si veda, ex pluris, Sezioni Unite sent. n. 7755/1998).
Nelle more del procedimento, in data 1° aprile 2021, è stato emanato il Decreto-legge n. 44 del 2021. Tale Decreto disponeva, al suo art. 4 co. 1, l’obbligo vaccinale per gli esercenti professioni sanitarie. Esso precisava (e, in seguito alla sua conversione in legge, tutt’ora sancisce) le concrete modalità di accertamento dell’obbligo vaccinale, nonché le conseguenze riconnesse al mancato assolvimento del medesimo.
Nello specifico, il citato art. 4 disponeva:
- la possibilità di esenzione o differimento dell’obbligo vaccinale per motivi di salute, che dovranno essere documentate prima e valutate poi dal medico di medicina generale (co. 2);
- la trasmissione dell’elenco degli operatori sanitari da parte del datore di lavoro (nonché degli Ordini professionali) alla Regione in cui essi operano (co. 3);
- la verifica da parte delle Regioni dello stato vaccinale di ciascun soggetto (co. 4);
- la segnalazione da parte della Regione, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, dei nominativi dei soggetti non vaccinati all’azienda sanitaria locale di loro residenza (co. 4);
- l’invito all’interessato, effettuato dall’azienda sanitaria di residenza, a produrre, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione, l’omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1 (co. 5);
- soltanto in caso di mancata presentazione della documentazione di cui al primo periodo, l’azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del relativo termine, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1 (co. 5);
- decorsi termini sopra detti, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza (co. 6);
- solamente l’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 (co. 6);
- dopo la ricezione della comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro deve verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio (co. 8);
- solamente ove l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione di cui al comma 9, non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato (co. 8).
La difesa della lavoratrice ha sostenuto, in primo luogo, che la citata normativa, essendo intervenuta successivamente rispetto al provvedimento di sospensione, non avrebbe potuto giustificare il provvedimento di sospensione, atteso che esso era stato adottato in assenza di un obbligo della lavoratrice di sottoporsi al vaccino. Veniva ribadita l’inesistenza di un potere datoriale di imporre al dipendente un trattamento sanitario. Prova della correttezza di tale assunto doveva rinvenirsi proprio nella specifica imposizione di siffatto obbligo mediante atto avente forza di legge.
In secondo luogo, veniva evidenziato che, anche volendo ritenere applicabile al caso di specie l’obbligo medio tempore introdotto, avrebbe dovuto essere rigorosamente accertato il rispetto dello specifico procedimento sopra descritto. La sospensione non retribuita avrebbe dovuto seguire, quindi, gli accertamenti pubblicistici sopra descritti e il datore di lavoro era, comunque, onerato di provare l’impossibilità di adibire la dipendente a mansioni ulteriori che non implicassero un contatto con i pazienti.
Il Tribunale di Milano, nella sentenza in commento, ha accolto entrambe le citate difese.
Pur non disponendo la reintegra della lavoratrice, in quanto pacificamente non vaccinata, il Tribunale accertava l’illegittimità originaria “del provvedimento di collocamento in aspettativa non retribuita della [omissis], con limitazione alla sospensione della retribuzione che, conseguentemente, il datore di lavoro sarà tenuto a corrispondere dalla data di sospensione sino all’effettiva riammissione in servizio o all’adozione di provvedimento legittimo di sospensione della prestazione lavorativa, all’esito dell’esperimento della procedura di legge”.
Nello specifico, il Giudice meneghino rilevava, in primo luogo, la mancata ottemperanza all’obbligo di ricollocamento. Infatti, “rappresentando la sospensione del lavoratore senza retribuzione l’extrema ratio, vi è un preciso onere del datore di lavoro di verificare l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, atte a preservare la condizione occupazionale e retributiva, da un lato, e compatibili, dall’altro, con la tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro, in quanto non prevedenti contatti interpersonali con soggetti fragili o comportanti, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”. L’onere di provare l’impossibilità di ricollocamento della lavoratrice non era, però, stato assolto da parte della Cooperativa.
In secondo luogo, ha trovato accoglimento l’argomentazione più rilevante della difesa della lavoratrice, ossia l’inesistenza di un potere datoriale di imporre ai dipendenti un trattamento sanitario. In particolare, veniva rilevato che “Non può, del pari, addursi in senso contrario [rispetto all’obbligo di ricollocamento, N.d.R.] la determinazione della cooperativa di richiedere la vaccinazione a tutto il personale presente in RSA, compresi amministrativi, operatori di assistenza domiciliare e addetti alle pulizie ed ai servizi di cucina non potendosi, in assenza di obbligo vaccinale generalizzato, che operare una ponderata comparazione tra l’interesse alla salute, prioritariamente riferito ai soggetti fragili, e quello al lavoro.”
Infine, la sentenza notava che “i rilevati profili di illegittimità del provvedimento di collocamento in aspettativa non retribuita della lavoratrice odierna ricorrente del 9/2/2021 non risultano in alcun modo elisi alla luce dell’entrata in vigore del d.l. 1 aprile 2021, n. 44, convertito con modificazioni in legge 28 maggio 2021, n. 76”. Veniva, infatti, censurato il mancato rispetto del procedimento sancito dal D.L. 44/2021 e volto all’accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale, con conseguente sospensione del dipendente senza retribuzione. Ne conseguiva, quindi, “anche sotto tale ulteriore profilo, l’illegittimità del provvedimento di collocamento in aspettativa non retribuita della [OMISSIS]”.
Il Giudice ha colto i due aspetti fondamentali della problematica, che devono essere strenuamente difesi.
Il primo è dato dalla perimetrazione dei poteri datoriali, i quali non possono in alcun modo includere quello di imporre unilateralmente un trattamento sanitario a un dipendente in assenza di uno specifico obbligo di legge.
Il secondo è dato dalla natura sostanziale delle norme procedurali poste dall’art. 4 del D.L. n. 44/2021. Esse, infatti, costituiscono uno strumento di tutela dell’operatore sanitario e intervengono su più aspetti della problematica, fra il diritto alla riservatezza dei dati personali, al contraddittorio procedimentale, alla possibilità di produrre documentazione atta ad ottenere l’esenzione dell’obbligo vaccinale.
Le sentenze sono l’unico strumento con cui si possono abbattere leggi sbagliate.
Avv.Mauro Sandri
Dr.Olav Taraldsen
Il testo della sentenza
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