Monaco Robot di Ishiguro

Di Enrica Perucchietti

A Kyoto, nel tempio zen di Kodaij, la preghiera è guidata da un robot[1]. Il suo nome è Mindar, è costato un milione di dollari e ha le sembianze di Kannon Bodhisattva, dea della misericordia e della compassione. L’androide è programmato per pronunciare un sermone di 25 minuti, muovendo il busto, le braccia e la testa.

Adottato nell’agosto del 2019, si è tornato a parlarne nei giorni scorsi, quando una fotografia che ritrae i monaci intenti a pregare dinanzi all’automa è diventata virale, creando sdegno, critiche e polemiche su questa forma di sovversione della spiritualità.

Tensho Goto, il monaco amministratore del tempio buddista è invece entusiasta della presenza di Mindar ed è convinto che l’androide potrà insegnare ai fedeli “la vera essenza del buddismo”. Questo perché a differenza sua e di qualunque altro monaco al mondo il robot non morirà mai e grazie all’intelligenza artificiale potrà acquistare una infinita sapienza: «La grande differenza tra un monaco e un robot è che moriremo […] [Mindar] può incontrare molte persone e memorizzare molte informazioni [nel tempo]. Si evolverà all’infinito».

Goto respinge le accuse di sacrilegio che alcuni critici hanno indirizzato alla scelta di adottare un robot per le funzioni religiose: «Il buddismo non è credere in un Dio, è perseguire il sentiero del Buddha […] Non importa se è rappresentato da una macchina, un pezzo di ferraglia o un albero». Goto ha aggiunto che «Se un’immagine del Buddha parlasse, sarebbe probabilmente più facile comprendere i suoi insegnamenti. Vogliamo che le persone guardino il robot e pensino all’essenza del Buddismo»[2].

Con i suoi 180 centimetri di altezza per 30 chili di peso, Mindar è principalmente realizzato in alluminio, anche se le mani, il viso e le spalle sono ricoperti di silicone per sembrare simile alla pelle umana. È in grado di muovere il torso, le braccia e la testa. Il cranio, peraltro, è per metà aperto e da esso spuntano cavi e luci lampeggianti. Come se non bastasse, il suo occhio robotico sinistro è dotato di una piccola telecamera.

Ha un corpo neutro rispetto al genere – non ha sembianze né maschili né femminili – ed è stato sviluppato in collaborazione tra il tempio Kodaiji e il professore di robotica Hiroshi Ishiguro dell’Università di Osaka, con un costo di circa un milione dollari. Il suo collaboratore, Kohei Ogawa, ha spiegato al Washington Post come il loro obiettivo fosse utilizzare le moderne tecnologie per creare una statua buddista robotica[3].

Veniamo al suo creatore, il “re dei robot”, Iroshi Ishiguro. Nel 2007 il Daily Telegraph ha inserito Ishiguro al 26° posto nella classifica dei 100 più grandi geni viventi. Ishiguro è noto per aver realizzato un clone di se stesso, un androide con pelle artificiale in silicone e muscoli artificiali esattamente uguale a lui. Si tratta del progetto Geminoid, gemello-androide, che ha come obiettivo la creazione di replicanti sul calco umano come quelli di Blade Runner. In sedici anni ne ha creati cinque, tutti in grado di sostenere una conversazione o persino recitare, come Geminoid F, un androide femmina che ha debuttato anche a teatro, successivamente ha sviluppato Erica, una androide che ha esordito come conduttrice televisiva.

L’obiettivo delle sue ricerche, come ho ampiamente analizzato in Cyberuomo (Arianna Editrice) è capire fino che punto l’aspetto esteriore – prima ancora di quello cognitivo – influenza i nostri rapporti interpersonali, le nostre modalità di interazione. Secondo lo scienziato giapponese, in futuro i robot sono destinati a convivere con l’uomo, a lavorare fianco a fianco con lui, ma per farlo ed essere socialmente accettati dovranno somigliarci il più possibile ed entrare in empatia con noi: «Gli androidi sono degli specchi di noi stessi. Sono la chiave per aiutarci a comprendere meglio la nostra natura»[4].

Ishiguro sostiene che la forma umanoide condiziona il nostro modo di interagire con i robot. Come dimostrano alcuni esperimenti con un androide, siamo disposti a interagire naturalmente, comportandoci come facciamo con un nostro simile. Il prossimo traguardo è fare in modo che i robot umanoidi pensino come noi, abbiano una personalità, siano capaci di esprimersi in modo autonomo.

Kannon non è neppure un fenomeno isolato: la presenza di robot nel campo della spiritualità sta prendendo sempre più piede negli ultimi anni, portando a delle derive di una vera e propria sovversione che dovrebbero ripugnare e allarmare i fedeli invece che spingerli ad abbracciare tali simulacri tecnologici. L’ascesa della robotica e dell’intelligenza artificiale sta sollevando nuove domande che coinvolgono anche la religione che non vengono adeguatamente discusse né affrontate, mentre i fedeli e l’umanità intera finiscono per subire passivamente l’ingerenza sempre più massiccia del transumanesimo e della scientocrazia, lasciando che la tecnologia prenda il sopravvento sul lato etico, ignorando le possibili derive di questo processo.

A Wittenberg, la città della Riforma Protestante di Martin Lutero, una chiesa evangelica ha creato BlessU-2[5], un robot che benedice i fedeli con un raggio di luce[6]. Quando si entra in chiesa il robot accoglie i fedeli e chiede loro se vogliono essere benedetti: se la risposta è affermativa il robot fa una specie di sorriso, illumina il fedele con un raggio di luce dal naso e dalle braccia, alza le mani al cielo e inizia con la benedizione.

Anche in ambito cattolico non mancano gli esempi di robotica religiosa: un esempio su tutti è SanTo (Sanctified Theomorphic Operator)[7], una statuetta di un metro e mezzo inventata dalla Pontificia Università Cattolica del Peru. Pensato soprattutto per praticanti anziani e realizzato dal ricercatore italiano Gabriele Trovato, SanTo è capace di raccontare le vite dei santi, di riferire le omelie papali, di citare versi della Scrittura. Può anche rispondere ad alcune domande dei fedeli e accompagnarli nella preghiera, come una sorta di “Alexa cattolica”.

Tramite la tecnologia robotica che da un lato evoca i miracoli del divino e dall’altro i prodigi della magia, l’umanità pare sempre più irretita dal sogno prometeico di evolvere indipendentemente dalle proprie leggi biologiche e contrastare la Natura. Un’umanità che dovrebbe perseguire “virtute e canoscenza[8] oggi sembra invece essere irretita dal desiderio di potenziare il corpo, cambiare il proprio destino biologico e trascendere i propri limiti.

Il filosofo Günther Anders, discepolo di Edmund Husserl e Martin Heidegger, coniò il concetto di “dislivello prometeico” per indicare la crescente disparità tra ciò che è diventato tecnicamente possibile e l’incapacità di prevedere le conseguenze delle cose prodotte: «Chiamiamo “dislivello prometeico” l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande»[9].

Ciò che caratterizza l’uomo è dunque un’inadeguatezza, definita da Anders “vergogna prometeica”: quel sentimento di inferiorità che prova l’uomo dinanzi ai prodotti tecnici da lui stesso creati. Le macchine, a differenza dell’uomo, sono pressoché perfette, godono di un’efficienza e di una funzionalità che superano di gran lunga i limiti imposti all’uomo: ecco perché per Anders l’uomo è diventato “antiquato”.

La lezione di Anders ci serve per capire come gli apparati tecnici, diventati un sistema autonomo, si stiano emancipando dall’uomo rendendolo vittima della sua stessa ossessione di trasformare la natura e di porsi come un novello demiurgo. La volontà dell’uomo di farsi oggetto tecnico, quindi perfetto e affidabile, lo porta da essere un semplice ingranaggio della cosiddetta “Megamacchina” (espressione come vedremo coniata da Lewis Mumford) a farsi esso stesso macchina, sognando di condividere la propria vita con i robot e persino di ibridarsi con l’intelligenza artificiale. Questa “masochistica” superbia, già secondo Anders, aveva come effetto la riduzione dell’uomo a oggetto.

Non si tratta soltanto di reificazione o mercificazione della condizione umana: la vergogna prometeica implica un passo ulteriore rispetto alla reificazione, ossia il riconoscimento da parte dell’uomo della superiorità delle cose. Potremmo quindi dire che se l’uomo si sente inferiore alle cose che ha prodotto, il passo successivo che si intravvede solo ora con il transumanesimo è l’annullamento della condizione umana nella tecnica, il farsi cioè esso stesso macchina/oggetto nell’illusione di poter conseguire una forma di perfezione.

  1. https://edition.cnn.com/travel/article/mindar-android-buddhist-priest-japan/index.html
  2. https://www.esquire.com/it/lifestyle/tecnologia/a28926720/prete-robot/
  3. Buddhism, robots and artificial intelligence, the new frontier – The Washington Post
  4. https://www.repubblica.it/tecnologia/2016/11/21/news/hiroshi_ishiguro_il_mio_gemello_androide-152498178/
  5. https://tecnologia.libero.it/blessu-2-il-robot-sacerdote-che-vi-benedice-con-un-raggio-di-luce-12425
  6. https://www.theguardian.com/global/video/2017/may/30/german-robot-priest-helps-mark-reformation-anniversary-video-blessu-2
  7. https://www.wsj.com/articles/deus-ex-machina-religions-use-robots-to-connect-with-the-public-11553782825
  8. Dante, La Divina Commedia, Inferno, XXVI, 120.
  9. Günther Anders, L’uomo è antiquato, Vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 50.